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Sala conferenze - Hotel Ala d'Oro

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venerdì 27 aprile 2012

Sabato 28 aprile - MASSIMO BAIONI a Caffè Letterario

Sabato 28 aprile, alle ore 18.00, nel Salone Estense della Rocca di Lugo, ultimo appuntamento del mese per Caffè Letterario con lo storico Massimo Baioni che presenterà il suo ultimo lavoro “Patria mia. Scritture private nell’Italia unita” edito da Il Mulino editore l’anno scorso. A introdurre questo incontro, organizzato con la collaborazione di “Romandiola Mazziniana” sarà Sauro Mattarelli vicepresidente della Fondazione "Oriani" di Ravenna e direttore della rivista di cultura politica "Il Pensiero Mazziniano".
1848-1911. Decenni cruciali per la storia nazionale: dalla prima guerra d’indipendenza all’anno in cui si celebra il cinquantenario dell’unità e si avvia la campagna coloniale per la conquista della Libia. L’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano offre, attraverso le voci dei suoi diari, uno speciale, affascinante sguardo sull’Italia che nasce e si sviluppa come stato nazionale. Le guerre di indipendenza dal punto di vista di chi le ha combattute; il racconto di un capo brigante che si sofferma sugli anni 1861-1862; quello del patriota garibaldino che vive nel culto dell’eroe dei due mondi ricordando le battaglie alle quali ha partecipato come giovane volontario; le memorie di un ispettore scolastico piemontese che, nell’Italia appena unita, si muove in varie sedi disegnando un quadro d’epoca puntuale e prezioso; le trasformazioni delle città italiane e i comportamenti degli abitanti osservati attraverso la lente di viaggiatori; frammenti di quotidianità affettiva restituiti da intensi epistolari amorosi.
E ancora: racconti di vita pubblica e privata di giornalisti, avvocati, magistrati e militari in carriera. Sullo sfondo, figure illustri: Mazzini, Ferdinando II e Francesco II di Borbone, Pio IX, Vittorio Emanuele II, Umberto I, Garibaldi, Nino Bixio, Agostino Depretis, Francesco Crispi: gli uomini della storia visti da uomini nella storia.
Massimo Baioni è professore associato di Storia contemporanea nell’Università di Siena. Tra le sue pubblicazioni più recenti segnaliamo «Risorgimento in camicia nera. Studi, istituzioni, musei nell’Italia fascista» (Carocci, 2006) e «Risorgimento conteso. Memorie e usi pubblici nell’Italia contemporanea » (Diabasis, 2009).

giovedì 26 aprile 2012

"Una modesta proposta" di IVAN LEVRINI


Lo scrittore reggiano IVAN LEVRINI è stato ospite di Caffè Letterario mercoledì 12 dicembre 2011, quando ha presentato la sua raccolta di racconti “Semplici svolte del destino” edito da QuiEdit.

Se esistesse il gioco del riassunto, e si praticasse una variante estrema in cui spingere la condensazione del discorso fino a un limite oltre il quale scompare il dicibile, e in gioco ci fosse un giudizio da dare sulla civiltà romagnola, allora in questo gioco del riassunto basterebbe una sola parola per esprimere l’essenziale, basterebbe dire che sono degli esagerati. Proprio così, il carattere tipico del romagnolo è l’esagerazione.
Qualcuno potrebbe obiettare denunciando l’errore: qui si prende la parte per il tutto, direbbero, una sineddoche di spazio minore, visto che l’esagerazione è un tipico carattere italico. Verissimo, l’esagerazione è diffusa in tutta Italia. Ad esempio i reggiani primeggiano nell’esagerazione politica. Lo sanno tutti che ai tempi del Partito comunista la provincia più comunista d’Italia era quella di Reggio Emilia. E non sono da meno nell’enfasi verbale: un’esagerazione portata sempre all’iperbole, come attesta la stampa cittadina che ricalca lo spirito del lettore. Furto al bar della scuola calcio di San Pellegrino: rubati cinque cornetti Algida; ventinovenne in lite col marito si getta dalla finestra del piano terra; casalinga senza precedenti penali ritira premio al supermercato Conad con carta punti rubata: denunciata per ricettazione. E naturalmente un po’ di neve diventa una tormenta polare, due settimane senza pioggia fanno scattare l’allarme siccità e una mattina ventosa si trasforma in una devastante bufera. Poi c’è l’uso di certi sostantivi che servono a darsi importanza. Il rigagnolo d’acqua che scorre in città è asciutto sei mesi l’anno ma lo chiamano fiume: il fiume Crostolo di Reggio Emilia. E che dire del grattacielo? un edificio di dodici piani contando anche l’ammezzato.
Inoltre, per ostentare grandezze non solo verbali, i reggiani sono capaci di tutto. Anni fa avevano scoperto la risorsa del maiale, e così Reggio Emilia era diventata la provincia d’Italia a più alta concentrazione suina. Un milione e duecento mila maiali, che tradotto in salumi voleva dire sei prosciutti per abitante, dodici fiocchetti, decine di coppe e salami, ciccioli a chili, e un sovrappiù di liquame a tonnellate, che non varrà come materia prima per produrre insaccati - dicevano a Reggio - ma come fonte di energia non era certo meno prezioso. In tempi più recenti hanno poi strafatto in architettura, erigendo una grandiosa costruzione ad arcate che s’intravede a quattro chilometri dal casello autostradale. Sono i famosi ponti di Calatrava, sorretti da una struttura a cavi d’acciaio che ricorda la cresta dello stegosauro. Così, adesso, per chi viaggia autostrada, il biglietto da visita con cui si presenta Reggio Emilia non è più la puzza di maiale.
Eppure, tutte queste esagerazioni non sono neanche da paragonare a quelle romagnole. Gli esempi si sprecano. Si consideri il mare. I romagnoli hanno il litorale sabbioso più lungo d’Italia. Un dono di natura, si dirà, d’accordo, ma quello che hanno costruito attorno non è opera della natura. I centocinquanta chilometri di strutture alberghiere che sorgono sul litorale, e che garantiscono la maggiore ricezione turistica d’Italia, li hanno eretti i romagnoli. Alberghi su alberghi, alberghi a perdita d’occhio, forse un primato europeo, non solo italiano, perché i romagnoli, quando si mettono un’idea in testa, non li ferma nessuno. S’è visto anche con le due ruote, biciclette o motociclette che siano. Con le quattro ruote è diverso. Chissà perché. Forse le trovano troppo stabili, o meno adatte ad assaporare la brezza marina, il vento garbino. Ma per le due ruote vanno in delirio. Se si tratta di pedalare, imparano prima ancora che a camminare. Per questo fioriscono i fenomeni. Stessa cosa con la moto. Ingranaggi, pulegge, rumori e scarichi del motore a scoppio: un’ebbrezza che al romagnolo evoca il godimento estivo che si prova durante le notti passate sui lettini vicino al bagnasciuga, con le straniere e la musica da ballo che arriva da lontano. E’ questo il segreto dei romagnoli: se si appassionano a qualcosa, sono ardori senza mezze misure, una sfrenatezza dionisiaca.
E non conta il campo d’applicazione. Una volta che sono catturati dall’impeto non c’è nulla che possa trattenerli. Sono presi dal ghiribizzo della poesia? Eccoli a poetare a perdifiato, come Giovanni Pascoli, romagnolo di San Mauro. Un esagerato che pur di poetare usava il latino. Chiunque altro, al di fuori della Romagna, si sarebbe accontentato di scrivere poesie nella lingua materna, invece in Romagna è diverso. Se uno fa tanto di lasciarsi andare al pallino della poesia, è capace di poetare a più non posso, anche nelle lingue morte. Sarebbero capaci di imparare l’etrusco. Pascoli s’era tanto buttato sul latino che lo usava per ogni cosa, prendere appunti, annotare la lista della spesa, imprecare, anche i pensieri gli scappavano in latino. Se incontrava un amico gli scappava detto quo vadis, e non per esibizionismo. E’ vero, gli amici non capivano  – un pataca, dicevano – però in compenso, vinceva i concorsi internazionali di poesia latina: tredici partecipazioni, tredici vittorie, tanto che se Valentino Rossi è stato il dominatore del Gran Premio delle Cinquecento, allora Giovanni Pascoli è stato il dominatore del Certamen latino di Amsterdam. La poesia era tutto per Pascoli, e quando languiva l’ispirazione non si dava per vinto, la cercava ovunque, anche nel sangiovese, fino all’ultimo goccio, pur di inseguire il risultato poetico. Pertanto, se è vero che Valentino Rossi rischia la vita sulle piste del motomondiale, è altrettanto vero che Giovanni Pascoli la rischiava ai tavoli delle osterie.
E tanto per rimanere a tema, dov’è nato Dino Campana? A Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo. Dov’è nato Marino Moretti? E’ nato a Cesenatico. E come mai un paese come Santarcangelo, che non è certo una grande metropoli, ha dato i natali a poeti del calibro di Nino Perdetti, Antonio Guerra detto Tonino e Raffaello Baldini? Un poeta, questo Baldini, che ha osato come nessun’altro, in poesia, e nessuna professoressa di scuola avrà mai il coraggio di leggere poesie come Cuntantès, ossia Contentarsi, oppure la leggerebbe saltando il primo verso, quello che dice: Mè l’è trent’an ch’a chégh cumè un arloz.
Per concludere non c’è da stupirsi se questa comune attitudine ad esagerare abbia generato una predisposizione affettiva fra reggiani e romagnoli. Un reggiano si sente subito a proprio agio, in Romagna. Un reggiano arriva a Lugo, ad esempio, dove lo hanno invitato a parlare di un suo libro, e anche se non conosce nessuno si sente a casa. Poi lo scrittore reggiano si siede al tavolo davanti al pubblico accanto a un presentatore romagnolo che introduce la serata con parole affettuose. E quando gli viene chiesto di leggere qualcosa del suo libro, lui si affida a un passo umoristico. Si tratta di una mossa rischiosa, potrebbe essere controproducente, perché se la lettura non generasse nessun effetto, se non fosse colto il lato comico del passo e tutti rimanessero in silenzio, lo scrittore reggiano sarebbe preso dallo sconforto. Sarebbe un segno di freddezza che la tipica esagerazione reggiana porterebbe a interpretare come stroncatura. Lo scrittore cadrebbe in balia di una cupa disperazione, gli verrebbe da pensare che avrebbe fatto meglio a non muoversi da Reggio Emilia, e forse avrebbe fatto meglio a non scriverlo nemmeno, il libro. Per questo inizia la lettura con un tremolio alla voce. Ha paura di sbagliare intonazione, di sbagliare i tempi, di andare a sbattere contro il muro del silenzio.
Invece, nonostante lo scrittore reggiano abbia iniziato col cuore in gola, dopo poche righe il pubblico romagnolo presente in sala comincia a ribollire. Sono scoppi improvvisi che provengono qui e là, contagiando altre zone della sala. La serietà iniziale si scioglie e lui avverte che cresce la temperatura. Sono risate vere, emissioni di suoni pieni, rumorosi, non sorrisi contenuti. A forza di ridere, certe signore eleganti si devono trattenere, altre invece si lasciano andare, ed è un piacere vederle ondeggiare. Significa che il pubblico romagnolo ha colto al volo l’umorismo reggiano, che poi è un’altra variante della tipica esagerazione. E ridere all’unisono non è cosa da poco, è uno dei più chiari indizi di affinità spirituale, di cui andrebbe tenuto conto nella vita, almeno al momento di sposarsi, visto che l’umorismo permane mentre la bellezza sfiorisce.
Ma allora, considerando il carattere che accomuna reggiani e romagnoli, perché non costruire un gran ponte per collegare direttamente Reggio Emilia e la Romagna? e permettere il transito di un treno a velocità esagerata? Partire da Reggio e raggiungere Lugo in pochi minuti. Un treno che stabilirebbe un primato mondiale e varrebbe come infrastruttura per risollevare l’economia. Varrebbe anche come via di fuga, perché nonostante il costume incline all’esagerazione scomposta, nel reggiano cominciano a manifestarsi certe avvisaglie di cambiamento, forse provenienti dalle terre a Nord del fiume Po. Si tratta della tendenza a un innaturale senso del decoro, dell’ordine, che si avverte nelle piazze e nei viali, nei giardinetti, negli uffici comunali, perfino nelle sedi dell’INPS o della Direzione provinciale del tesoro, dove in passato regnava un confortevole ambiente disadorno. Si sta diffondendo il gusto per i muri intonacati di fresco, per i colori uniformi, per le siepi fiorite, come se fossimo in Svizzera. Dilaga la cultura dell’arredo urbano. Si vorrebbe una città disposta come un salotto di casa, con l’effetto tipico dei salotti ben tenuti che non si usano per non sporcarli, cioè si va altrove. Non si vedono quasi più le auto infangate, come se non piovesse mai, i gatti randagi sono scomparsi, i cani al guinzaglio sono addestrati ad abbaiare sottovoce, qualcuno propone di multare i ciclisti con la bicicletta che cigola, e sanzionare chi mangia un panino camminando, e poi l’arresto immediato per chi si mette le dita nel naso. Tutto dev’essere misurato, regolato, normalizzato. E’ lo spirito del perimetro funerario che si fa avanti in città: luoghi di vita da organizzare come luoghi della sepoltura. Tutto suddiviso in lotti e aiuole dove si fa bella figura quando il marmo è tirato a lucido. Rimuovere lo sporco, il rumore, il disordine, come se la vita avesse in sé qualcosa di lievemente vergognoso e il canone dell’esistenza dovesse regolarsi sul canone della non esistenza. Forse è una reazione all’angoscia di morte che fa abbracciare l’ideale di un mondo dove non vi sia più scambio termico fra gli oggetti dell’universo, e tutto permanga in uno stato di immobilità. Atteggiamenti che se si diffondessero ulteriormente farebbero proprio venir voglia di scappare, finché si è in tempo, verso la Romagna.
di Ivan Levrini


mercoledì 25 aprile 2012

"Per Lugo" di PINO CORRIAS


Lo scrittore e giornalista PINO CORRIAS è stato ospite di Caffè Letterario venerdì 30 marzo, quando ha presentato il suo libro “Vita agra di un anarchico" edito da Feltrinelli.

Ho attraversato Lugo di notte scortato da quattro narratori. Ho visto quello che non si vede a occhio nudo: le storie che contengono i luoghi, il filo che corre dal Castello al cielo di Baracca, passando per un fuoco dove bruciò la libertà e che Lugo non ha mai voluto scordare, con il suo post it di pietra sulla pietra.
Sono arrivato con un libro da raccontare – Vita agra di un anarchico, che è storia di altri tempi, ma attuali – e me ne sono andato con la visione di una piazza del mercato e dei suoi vicoli pieni di chiacchiere e del Teatro e della Biblioteca che sempre presidiano la civiltà di un luogo. Per non dire del ragù a cena, del Sangiovese e della piada comparsi nel piccolo jazz del dopocena.
Andandomene il giorno dopo, ho invidiato chi resta, le sue radici, quel camminare dentro la propria storia che custodisce il futuro di un luogo, trasformandolo in una comunità. E ho immaginato che il lungo inchino dei peschi appena fioriti, lungo la strada che in pieno sole va a Bologna, fosse un segno da ricordare, un appuntamento per la prossima volta.
di Pino Corrias

martedì 24 aprile 2012

L'incontro con PAOLO DONATI e le "Letture al buio"


Sono stati due gli appuntamenti di Caffè Letterario nella giornata di sabato 21 aprile.  Il primo alle ore 18,00 nella saletta conferenze della libreria Alfabeta ha visto come protagonista lo scrittore forlivese Paolo Donati che ha presentato il suo bel romanzo “Verso la felicità volevamo tornare” edito da Moby Dick. Quindi alle ore 20,30 nel ristorante dell’Hotel Ala d’Oro, si è tenuta la serata conviviale del mese con le “Letture al buio” dedicate al grande cinema… Ecco le immagini. 





PAOLO FRESU a Caffè Letterario


Ecco le immagini del pomeriggio passato in compagnia di Paolo Fresu che venerdì pomeriggio 20 aprile ha presentato a Caffè Letterario il suo libro autobiografico “Musica dentro” edito da Feltrinelli. L’incontro è stato introdotto dall’amico tastiersita Teo Ciavarella che insieme ad Ares Tavolazzi al contrabbasso e Ellade Bandini alla batteria hanno accompagnato il trombettista sardo nel magnifico concerto che si è tenuto in serata al Sax Pub Cafè di Lugo.






sabato 21 aprile 2012

Sabato 21 aprile - "Cinema, Cinema, Cinema..." Le letture al buio di Caffè Letterario

Sabato 21 aprile, alle ore 20.30 nel Ristorante dell'Hotel Ala d'Oro di Lugo, nuovo appuntamento conviviale della stagione con le "Letture al buio". Un appuntamento imperdibile per tutti i cinefili dove il protagonista della serata sarà ... il grande cinema di tutti i tempi! Dopo il successo della passata stagione Caffè Letterario ripropone nel ristorante dell'Hotel Ala d' Oro le letture al buio, divertenti occasioni conviviali in cui i partecipanti saranno invitati a leggere, in coppia con un lettore sorteggiato fra i presenti, un brano tratto dalla sceneggiatura di un film più o meno famoso. Una inusuale e divertente occasione insomma per giocare insieme col Cinema e, per chi se la sentirà di leggere, di entrare nelle parti dei grandi personaggi e attori che hanno fatto la storia della "settima arte". Per i più timidi, che non se la sentono di leggere, la possibilità di partecipare al gioco cercando di capire dalla lettura di improvvisati attori, di quale film si tratti, quale regista lo ha diretto e l'anno in cui è stato girato. Dopo che tutti i partecipanti al gioco avranno espresso la propria opinione, si rivedrà lo spezzone  originale del film in questione sul grande schermo della sala. Cosa aspettate? 12 capolavori deIla storia del Cinema vi aspettano e i premi per i vincitori saranno ovviamente libri. Per quanto riguarda poi l'aspetto gastronomico, la cena sarà a buffet, con un'ampia scelta di piatti, così da accontentare tutti, vegetariani e non...

Menù a buffet
Aperitivo
Ravioli di pecorino e noci
Manfettini con asparagi e prosciutto
Tagliere di salumi, formaggi e piadina
Insalatina di seppie e canellini
Filetti di Branzino alla verza
Polpa di vitello ai funghi
Sformatini di verdura assortiti
I dessert
Caffè


€. 20,00 per persona bevande incluse
Prenotazioni al 0545 22388


Sabato 21 aprile - PAOLO DONATI a Caffè Letterario

Sabato 21 aprile, alle ore 18.00, secondo appuntamento stagionale nella saletta conferenze della Libreria Alfabeta, con lo scrittore forlivese Paolo Donati che presenterà il suo romanzo “Verso la felicità volevano tornare” edito da Moby Dick nel 2011. L’incontro sarà condotto dal curatore di Caffè Letterario Marco Sangiorgi.

Potremmo sospettare che le nostre storie personali s’intreccino con la Storia, quella con la maiuscola, guidate da una casualità a volte un po’ sospetta, no?  Donati s’interroga al riguardo in maniera originale, avvincente: i suoi protagonisti attraversano - spauriti e dolenti, ma fieramente intenzionati a uscirne vivi - la Seconda Guerra mondiale, si organizzano per ricostruire, si amano, tradiscono, magari abbandonano l’Italia cercando d’impiantare radici altrove, adorano il buon cibo e il vino rosso, a volte si ritrovano per poi fuggire nuovamente. Si commuovono ascoltando canzoni alla radio, eccitandosi al ritmico fluire del tango se non piuttosto della chitarra jazz di Django Reinhardt. Un incrociarsi di esistenze che affronta i mutamenti epocali degli ultimi decenni, che evita le facili nostalgie del “bel tempo che fu” eppure rivendica l’importanza della memoria come radice di qualsiasi futuro.
Paolo Donati è nato a Forlì nel 1953. Vive e lavora a Bologna, dove - dopo la laurea in Giurisprudenza - ha aperto uno studio legale con la moglie. Ha pubblicato il romanzo Testimoni di passaggio (Gallo & Calzati) e ha collaborato con “Bonews”, rivista mensile per la quale ha curato una rubrica di musica jazz. Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati, tra il 2008 e il 2010, in varie antologie.

venerdì 20 aprile 2012

Venerdì 20 aprile - PAOLO FRESU a Caffè Letterario

Straordinario incontro dedicato alla grande musica Jazz, Venerdì 20 aprile, alle ore 18.00, nella sala conferenze dell’Hotel Ala d’Oro, con il trombettista Paolo Fresu, uno dei jazzisti italiani più famosi nel mondo,  che presenterà il suo libro autobiografico “Musica dentro” edito da Feltrinelli nel 2009. Incontro letterario che si trasformerà in tarda serata (ore 22.30) presso il Sax Pub Cafè di Lugo in un concerto che lo vedrà protagonista insieme a Teo Ciavarella alle tastiere, Ares Tavolazzi al contrabbasso e Ellade Bandini alla batteria. (per info e prenotazioni per il concerto: Sax Pub Cafè – Tel 0545 900396). Lo stesso Teo Ciavarella, amico di lunga data del musicista sardo, avrà anche il compito di introdurre la parte letteraria dell’evento che terminerà con  il consueto brindisi/aperitivo offerto a tutti i presenti.

Questo libro è un atto d'amore. Per la musica. Per i suoni. Per lo strumento, la tromba, compagno di strada di una vita. Dentro c'è tutto l'universo di un artista sempre più apprezzato e conosciuto sia in Italia sia all'estero. C'è il legame con le radici sarde, i silenzi di una campagna selvaggia rotti dal fruscio delle foglie e dai belati delle pecore. C'è la scoperta della vocazione musicale e il severo tirocinio di un artista. C'è l'incontro con Miles Davis, modello e ispiratore di sempre. E c'è un'idea della musica come esplorazione incessante di paesaggi sonori. La tromba di Fresu ha dato lustro alla nouvelle vague del jazz europeo, le sue incursioni nel pop e nella musica colta hanno contribuito ad aprirle nuove strade, la sua passione e generosità hanno aiutato ad avvicinarla a un pubblico sempre più ampio.
Paolo Fresu è nato a Berchidda in provincia di Olbia nel 1961. Inizia lo studio dello strumento all'età di undici anni nella banda musicale Bernardo De Muro del suo paese natale. Nel 1984 si diploma in Tromba presso il Conservatorio di Cagliari con il M° Enzo Morandini ed inizia una straordinaria carriera da jazzista, che lo porta negli anni a registrare oltre 300 dischi e più di 2500 concerti, con centinaia di collaborazioni. Fresu è oggi uno dei più apprezzati jazzisti europei, e il suo suono è stato più volte paragonato a quello di due leggende come Miles Davis e Chet Baker.

mercoledì 18 aprile 2012

Giovedì 19 aprile - "I poeti dei poeti" MASSIMO SCRIGNOLI a Caffè Letterario

Giovedì 19 aprile, alle ore 21.00, nella Sala Baracca della Rocca Estense di Lugo  ultimo incontro della stagione del ciclo “i poeti dei poeti” con Massimo Scrignoli che leggerà i versi di Thomas Stearns Eliot, Roberto Sanesi e Dante Alighieri.
Massimo Scrignoli (1953) vive in provincia di Ferrara. Sulla riva del grande Fiume. Svolge un’intensa attività in ambito editoriale e ha curato la versione e l’ introduzione critica dei racconti di Franz Kafka contenuti in Relazione per un’ accademia e altri racconti (Book Editore, 1997).
Ha pubblicato vari volumi di poesia, con interventi critici di Raboni, Pampaloni, Ramat, Sanesi; ricordiamo Notiziario tendenzioso (Bologna, 1979), Le linee del fuoco (Book ditore, 1991), buio bianco (Book Editore, 1999) e Lesa maestà (Marsilio, 2005). Suoi testi sono stati tradotti in inglese, croato, portoghese e spagnolo.

martedì 17 aprile 2012

"L'isola che non c'è più" di Ivano Nanni

Sull'incontro di lunedì 16 aprile con Mario Isnenghi e il suo libro "Dieci lezioni sull'Italia contemporanea".

Nelle prime righe del suo libro, “ Dieci lezioni sull'Italia contemporanea “, il prof. Mario Isnenghi, con il disincanto ironico di chi conosce le Storia e le storie italiche, rivela che il dipartimento di Studi storici a Ca' Foscari è stato chiuso insieme ad altri dipartimenti, evidentemente per mancanza di fondi. “Perché mai dovrebbe rimanere aperto un dipartimento di studi storici in questa epoca dove conta ben altro che la riflessione storica per fare politica”?
Sono parole pungenti che insistono sull'insipienza diffusa in ambito politico, che forse è la “qualità” più evidente della politica odierna, confinata in una imbarazzante mancanza di prospettiva teorica, alla ricerca di soluzioni progettate unicamente per riprodursi spudoratamente senza un disegno realistico credibile.
Una  politica siffatta è una caricatura di se stessa, e non può fare altro che produrre interventi sciagurati, mercificazioni parlamentari, truffe civiche di portata epocale, scandali che ormai passano in giudicato senza quasi lasciare traccia nella memoria tanta è la rassegnazione nei cittadini. A guardare quello che succede, con uno sguardo dal di fuori,  si direbbe che in Italia governano un gruppo di futuristi influenzati dal  neo-espressionismo astratto con propensione all'informale. A questo governo non serve una critica politica serve una critica d'arte che smonti le loro tesi fintamente d'avanguardia. D'altro canto per fare una critica politica vera servirebbe appunto la conoscenza dei fatti in una prospettiva storica che non è richiesta ai politici.
Sapere qualcosa di quello che è stato è una cosa in più, una specie di zavorra mentale inopportuna,  meglio non avere zaini troppo pesanti da portare: la politica si muove veloce, occorre essere snelli per fare le acrobazie.  Palestra parolaia e monologante, teatrino del patetico e del consunto, palcoscenico di burloni, circo degl'incivili che danno buona prova di sé ecco a cosa si è ridotta la nostra politica; ma allora, se è così, e pare che lo sia, per decreto presidenziale inoppugnabile, che  si incarichino i critici teatrali di scrivere i programmi dei partiti e di criticarne le tesi, che si affidi a Luca Ronconi la direzione del Pd e non a Bersani, che arrivi un Eugenio Barba dalla Danimarca a far danzare gli spettri del Pdl, e che si inviti il Living Theatre a Montecitorio a proporre le sue “Meditazioni sul sadomasochismo politico”.
Non servirebbe ad uscire dalla crisi ma almeno ci divertiremmo.
È vero che abbiamo avuto una storia “grande e terribile” della quale dobbiamo andare fieri, ma la nostra propensione  a ignorare non solo i fatti passati ma anche quelli più recenti dei quali la memoria dovrebbe conservare tracce più calde, ci fa sembrare come  un popolo di struzzi.
La smemoratezza sembra guadagnare spazi mentali sempre più vasti perseguendo uno scopo non troppo occulto, vale a dire ridisegnare la nostra esistenza all'insegna del “cupio dissolvi” di cui si ha solo una vaga percezione.
In altre parole c'è la sensazione di  polleggiare vacuamente tra  oggetti e soggetti le cui relazioni realisticamente costituiscono il tessuto della società ma delle quali non si riesce a cogliere i rimandi con il passato, e questa mancanza, questo vuoto, è fonte primaria di angoscia spesso inconscia.
In giro c'è l'esigenza di trovare qualche punto fermo dal quale partire per riordinare  pensieri improbabili ai quali servono prospettiva storica e rimandi documentati al passato per non essere dominati dall'infausta legge del “pressapoco così va bene”.
Nessuno in politica si salva dalle sirene del populismo e della polizia. C'è una corsa ad ostacoli sempre più bassi dove ogni microbo, ogni particella politica infinitesimale, ogni patetico  campanile può produrre il suo danno e richiedere la sua mercede sotto forma di rimborso elettorale.
Per non parlare del lessico, delle frasi fatte, dell' imperio del luogo comune demenziale,  tutto nella palestra dell'opinionismo politico viene centrifugato alla velocità del suono,  omogeneizzato, fuso  in un linguaggio lessato che ci ammorba.
L'edulcorazione della realtà passa attraverso l'attribuzione di sinonimi zuccherosi a parole che non si devono pronunciare principalmente per ridurne la loro portata significativa.
Ad esempio: angoscia è sostituita con la parola disagio, quasi sempre seguita dall'aggettivo esistenziale. Ma l'angoscia è molto di più del disagio, che è sinonimo di scomodità; si è a disagio con una giacca troppo stretta, se le scarpe strette sono scomode, una postura scorretta crea disagio; ma l'angoscia indica una minaccia incombente, un pericolo che oscura ogni pensiero e che non fa penetrare nessuna luce, un groviglio che ci chiude ogni speranza di soluzione, che non permette nemmeno di digerire bene, ed è a differenza dell'ansia il sintomo di una mancanza vera, gli psicologi direbbero di un lutto. Manca il lavoro, manca il denaro, le famiglie si sfasciano, le persone si suicidano: questa è angoscia quotidiana. La parola giustizia, ad esempio, è sparita dalla vulgata politica. Al suo posto si è insinuata una parolina meno severa, meno evocativa di possibili punizioni, una parola che non fa male a nessuno: equità. Non è uguaglianza e non è giustizia, è la neutralità verbalizzata.
Tanto per essere politicamente dadaisti si potrebbe dire che l'equità è la quintessenza del cavallo, la cavallinità, una categoria che comprende tutti i cavalli del mondo, di quelli che sono stati e di quelli che saranno. Sta tutta qui la visione politica dei nostri eletti. Non si deve pensare ai cavalli  ma   alla cavallinità.  E' semplice e pulito: con la cavallinità, si possono far sparire tutti i cavalli senza spargere una goccia di sangue, mentre pensare al cavallo  vero vuol dire pensare a quello che serve per farlo campare, significa organizzare  un mucchio di cose tutte insieme e che vanno bene per il cavallo. Fatti due conti è meglio pensare a una cosa sola è più facile e costa meno. Ecco perché i nostri politici preferiscono la cavallinità.
di Ivano Nanni

La serata con MARIO ISNENGHI

Queste le immagini della serata di ieri sera, lunedì 16 aprile, con lo storico Mario Isnenghi che ha presentato il suo libro edito da Donzelli “Dieci lezioni sull’Italia contemporanea”. L’incontro è stato introdotto dallo storico ravennate Paolo Cavassini. Mario Isnenghi è uno dei più grandi storici contemporaneisti italiani, è autore di lavori fondamentali in campo storico, che si articolano in un arco di tempo che va dagli anni ottanta ad oggi. E’ autore di testi che sono considerati dei classici come “Il mito della grande guerra”, “L’italia in piazza”, “I luoghi della emoria” libri che hanno contribuito a creare l’immagine di Isnenghi come specialista in particolar modo della Grande Guerra e del Risorgimento, fino ad arrivare al volume “Garibaldi fu ferito” del 2007 e presentato dallo stesso Isnenghi al Caffè Letterario di Lugo cinque anni fa.
In “Dieci lezioni sull’Italia contemporanea”, Isnenghi  racconta 150 anni di storia d’Italia in dieci lezioni tenute nel corso del 2011. Dieci lezioni pubbliche che Isnenghi ha tenuto a Venezia per celebrare il suo congedo dall’Università di Ca’ Foscari  come Ordinario di Storia Contemporanea e che diventano solo in un tempo successivo diventano un libro. Un libro dove l’autore solca un terreno vasto e accidentato come quello della storia italiana contemporanea, arricchendo lo scritto con riferimenti bibliografici ed associazioni mentali che ne ispessiscono la levatura, rendendo l’opera accattivante e diretta. Partendo da quella straordinaria stagione passata alla storia come Risorgimento, in cui viene evidenziato un passaggio che resta quasi sempre marginale, quale quello che portò gradualmente gli italiani dalla condizione, culturale prima di ogni altra, di sudditi a quella di cittadini, Isnenghi giunge fino ai giorni nostri, in cui in nome di un presentismo strumentale si cerca di fare a meno della storia, se non quando fa comodo strumentalizzare pure quella.





lunedì 16 aprile 2012

Lunedì 16 aprile - MARIO ISNENGHI a Caffè Letterario

Lunedì 16 aprile alle ore 21,00 nella Sala Conferenze dell’Hotel Ala d’Oro nuovo incontro di Caffè Letterario con lo storico Mario Isnenghi che presenterà il suo libro dedicato alla storia recente del nostro paese “Dieci lezioni sull’Italia contemporanea” edito da Donzelli. L’incontro sarà introdotto da Paolo Cavassini e terminerà come sempre con il consueto brindisi finale per tutti i presenti.

Si può raccontare, in dieci lezioni, il «succo» di 150 anni di storia del nostro paese? Lo si può fare in modo facile, gustoso, accessibile, suscitando la curiosità e l’interesse del lettore, senza nulla perdere in fatto di precisione e di rigore? Un grande storico, Mario Isnenghi, raccoglie la sfida. Non accetta il pregiudizio per cui solo i giornalisti possano farsi capire dal grande pubblico, quando raccontano di storia. Non gli piace l’idea che gli storici abbiano bisogno di «supplenti». Perciò, dopo tanti libri di ricerca, giunto al termine della sua prestigiosa carriera di docente, decide di raccontare con brio e con passione dieci momenti essenziali, dieci questioni decisive del nostro passato, da quando non eravamo ancora una nazione… a quando facciamo una qualche fatica a rimanerlo.
Nato da un esperimento di dialogo con il pubblico, in dieci incontri che i fortunati spettatori diretti ricordano come «memorabili», questo libro, per comune volontà dell’autore e dell’editore, si propone di «raccontare la storia», di presentarla alle giovani generazioni attraverso una scelta accurata degli argomenti, delle citazioni, dei linguaggi.
L’autore non fa nulla per nascondere la sua posizione circa i fatti che racconta. Gli piace, l’Italia. La riconosce come un collante essenziale della nostra identità. E gli piace un’Italia laica e democratica, come non sempre è stata e come spesso rischia di non essere.
Mario Isnenghi è uno dei massimi storici italiani del dopoguerra. I suoi ambiti di ricerca spaziano dalla Grande Guerra, al fascismo, dai conflitti fra le memorie, alla soggettività ed al discorso pubblico. Attualmente è docente di storia contemporanea presso l'Università di Venezia. Fra le sue numerose opere sono ormai dei classici della storiografia "Il mito della Grande guerra" (Il Mulino), la "Breve storia dell'Italia unita a uso dei perplessi" (Rizzoli) e “Garibaldi fu ferito” che lo stesso Isnenghi presentò qui a Caffè Letterario nel febbraio del 2008.

domenica 15 aprile 2012

"L'audace colpo del solito ignoto" di Ivano Nanni

Sull'incontro di venerdì 13 aprile con Massimo Pulini e il suo libro "Gli inestimabili".

Quando si è scoperto chi era stato a rubare i quadri di inestimabile valore dal Palazzo Ducale di Urbino tutti sono rimasti allibiti. Si sospettava una banda di super esperti ladri di opere su commissione, si diceva che dietro c'era la mafia che voleva ricattare lo Stato, altri pensavano ai terroristi: nel 1975, anni di sequestri e di terrore pensare a ipotesi simili era la via maestra, la stampa internazionale fece dei titoloni. Nessuno si aspettava che un ladro romantico e solitario potesse progettare ed eseguire un lavoro semplicemente assurdo. Impensabile per tutti ma non per lui: per Elio Pazzaglia, detto Paz come pazzariello, pesarese di nascita, detto “il romagnolo"  biscazziere, giocatore da bar, ladro per amore e per scommessa, la cosa era fattibile.
A entrare nel mirino di Pazzaglia furono un Raffaello e due Piero della Francesca, tre capolavori assoluti. Alla fidanzata erano piaciuti e lui li aveva rubati perché erano piaciuti anche a lui in fondo, in quei quadri c'era qualcosa che lo rasserenava: “Peccato che quel quadro lungo (la città ideale di Laurana), non entrava in macchina altrimenti avrei preso anche quello, mi dava serenità a guardarlo“. Parole magiche.
Di fronte alla bellezza anche il ladro per vocazione Pazzaglia resta sedotto dalla pace che gli infondono quei quadri, e capisce bene che quello che ha appena compiuto è un piccolo capolavoro di intelligenza e di audacia. Non era il solito furto di copertoni, la solita roba piccola, con questi si poteva realizzare un bel gruzzolo. Dopo il furto i quadri li aveva portati al bar e messi sulla lastra di vetro del flipper per farli vedere a tutti quelli che non ci credevano, eppure erano lì, e lui voleva i soldi per poter giocare. Le mille luci intermittenti del flipper illuminavano la Flagellazione di Cristo mentre la gente lì accanto fumava, beveva e bestemmiava per le carte che non giravano; un direttore di museo sarebbe morto d'infarto a vedere la Muta di Raffaello in una sportina della coop, e la Madonna di Senigallia avvolta in un cartone legato con lo spago. Poi Pazzaglia perde al gioco la somma che aveva ricavato impegnando i quadri. Perciò i capolavori da museo passano di mano in mano e si inabissano in quel mondo sotterraneo, catacombale, popolato da mercanti d'arte senza scrupoli, da mediatori truffaldini, da collezionisti predatori e antiquari imbroglioni, che non esitano a commissionare squartamenti di opere, ritagli e mutilazioni di grandi quadri, decapitazioni di putti, pur di soddisfare un mercato corrotto, una fantasia di onnipotenza, il desiderio di avere solo per sé il capolavoro.
In questa audace impresa con lieto fine come si conviene alle commedie, i quadri rientrano al museo, il simpatico Pazzaglia si prende una pena modesta e gli altri del giro ancora meno, vale a dire che si conclude all'italiana; la commedia finisce un po' come quei ladri modestissimi che fanno il buco sbagliato e invece del forziere trovano una cucina e da morti di fame quali sono si fanno una fagiolata tanto per rimettersi in forza dopo una nottata di lavoro. “ I soliti ignoti “.  Si dice che solo l'Italia, deficitaria sul piano politico e sociale può produrre soggetti anarcoidi geniali, capaci di imprese iperboliche strambe e rigorosamente illecite, personaggi veri che il cinema non può che rendere appena verosimili sullo schermo, ma forse è vero  quello che disse una volta il grande Orson Welles a proposito degl'italiani:
“Tutti gli italiani sono degli attori e i peggiori stanno sul palcoscenico”. E Pazzaglia è stato un grande attore.
di Ivano Nanni

La serata con MASSIMO PULINI

Ecco le immagini della serata di venerdì 13 aprile dove Massimo Pulini ha presentato il suo romanzo “Gli inestimabili” edito da CartaCanta. L’incontro, organizzato in collaborazione con il F.A.I. di Lugo, è stato introdotto da Marco Sangiorgi. Lo scrittore, saggista e pittore Massimo Pulini (che fra l’altro ricopre attualmente l’incarico di Assessore alla Cultura del Comune di Rimini) ha parlato del suo romanzo che ruota intorno al più clamoroso furto della storia museale italiana; il “furto d’arte del secolo” come venne chiamato allora.  Un giallo che, il 6 febbraio 1975, vide quali vittime tre capolavori assoluti di Raffaello Sanzio e Piero della Francesca, trafugati dalle sale di Palazzo Ducale di Urbino e destinati a diventare nei giorni successivi, la principale notizia di cronaca “nera” presente sulle prime pagine della stampa internazionale. Proprio la clamorosa vicenda: il furto della “Madonna di Senigallia” e della “Flagellazione” dell’artista di San Sepolcro e de “La Muta” di Raffaello che tanto appassionò l’opinione pubblica, sono stati anche lo spunto per rinfrescare un po’ di storia dell’Arte e per capire meglio quali siano i problemi della conservazione del nostro patrimonio artistico.