Era cominciata verso sera, ma alle undici, quando siamo sbucati da via Matteotti, la nevicata era diventata una bufera. Illuminati dai riflettori, in alto sulla piazza, i fiocchi di neve giravano in cerchio come se li avesse presi il vortice di una turbina. Molti venivano giù, ma molti altri, capricciosamente, tornavano in su, decisi a farne di tutti i colori pur di non posarsi. L’obelisco, bagnato, liscio, luccicava nel buio come una scultura di Brancusi. Così alto e immobile, in mezzo al cataclisma, sembrava un faro: un faro bianco a sorvegliare, o forse a proteggere, più in basso, con un pollice in tasca, anche lui marmoreo e incurante, Francesco Baracca.
“Ah, ma lui ne ha viste tante,” ha commentato il maestro, stringendosi con la mano il colletto del paltò, là dove latitava l’ultimo bottone. Avevamo cominciato ad attraversare la piazza, e il vento, maligno, ci prendeva d’infilata.
“Una volta, con un tempo così, quello là”, diceva adesso il maestro, il pollice a indicare Francesco Baracca, come se non volesse nascondergli che si parlava di lui, “con un tempo così si è alzato in volo, pensa: con quegli aeroplanini di tela, quei trabiccoli che stavano insieme con lo sputo”.
“Con lo Spad,” ho detto io, per far vedere che mi ero documentato.
“Sì, forse,” ha detto il maestro, “ma forse era ancora il Macchi, come si chiamava? Il Nieuport, quello che aveva prima. Ma insomma, Spad o non Spad, basta guardarli e si capisce che ci voleva del fegato solo a salirci su, su quei trabiccoli. L’hai visto? Sei stato al Museo?”
Non c’ero stato, non gli ho risposto, non ci ha badato. Quando attaccava a raccontare, il maestro, era difficile che smettesse prima di un quarto d’ora.
“Un coraggio da leone”, ha confermato. “Per questo poi erano tutti pieni di cocaina”.
Si è girato per vedere se aveva fatto colpo, ma ero tutto imbacuccato e non l’ha capito.
“Dico sul serio. Allora usava così, non c’era mica niente di male. Per il freddo. Potevano mettersi due, tre maglioni sotto il giaccone di cuoio, ma là per aria, senza carlinga, si moriva di freddo comunque, se non tiravi un po’ di coca. D’Annunzio, anche lui, che poi gli ha fatto l’elogio funebre…” Non ha concluso la frase, non voleva perdere il filo. “Insomma, saprai che si discute di quanti aerei abbia tirato giù, Baracca. Ufficialmente sarebbero 34, ma noi qua al Museo abbiamo scritto 36, e secondo me abbiamo anche fatto bene. Ci sono dei casi dubbi, non sempre i resoconti coincidono.”
Intanto avevamo raggiunto il pavaglione e lì, al coperto, scrollata la neve dai paltò, ci siamo fermati a guardare la notte. Sarà stato l’effetto dei riflettori, ma adesso il cielo sembrava giallo, con delle macchie più opache, qua e là, che si muovevano in fretta. In tutta la grande piazza, sotto il portico, e da qualunque parte ci girassimo, non si vedeva nessuno: solo noi a tirar su col naso, e il monumento di Baracca a gambe larghe a sfidare la neve. Il maestro era senza accendino e si è fatto prestare il mio. In due tiri è arrivato a metà della sigaretta, e poi ha riattaccato, tirandomi per la manica e gesticolando all’indirizzo del monumento quando necessario.
“L’ha raccontata a mio nonno, questa storia, uno che c’era: un meccanico, di Bagnacavallo. Immaginati un giorno come questo, un tempo da lupi: neve fitta, raffiche di vento e nubi basse. Roba che neanche la guerra riusciva a andare avanti. Forse si erano gelati tutti i cannoni, non si sa, ma non sparava nessuno. C’era un silenzio, dice, un silenzio… Fatto sta che per quel giorno avevano capito che non ci avrebbero lasciato la pelle, e così al campo di aviazione, dalle parti di Treviso mi pare, se ne stavano tranquilli; qualcuno chiacchierava, si scaldavano il caffè. A un certo punto però sentono un ronzio, su per aria. Alzano gli occhi, non vedono niente. Era un aereo, ma chissà dov’era: con tutto quel bianco non c’erano punti di riferimento, e anche i suoni arrivavano ovattati: un po’ sembrava di avercelo proprio sopra, un momento dopo che fosse lontano. Insomma, restano un pezzo col naso per aria, è quello, non è quello. E alla fine sì, lo vedono spuntare dalle nubi, solo per un attimo, e poi sparire di nuovo. Però non andava via, si sentiva che continuava a girargli sulla testa. In quella zona c’era un solo campo di aviazione italiano, il loro; quella mattina nessuno era stato così matto da alzarsi in volo, e per che cosa, poi? Insomma, era per forza un aereo austriaco, o forse tedesco, e siccome non si vedeva niente, non si poteva neanche dire che stesse facendo un volo di ricognizione. No: era lì solo per un motivo, per fare lo spaccone: e bravo l’austriaco. Una bravata pericolosa, però, pericolosissima: con la tormenta che c’era, con la visibilità che c’era, tornare giù per terra senza rompersi l’osso del collo non era mica facile. Sono lì che commentano questa cosa, questo gesto spavaldo e inutile, quando arriva Baracca. Guarda in su, non dice niente; va nel capannone – oggi diremmo hangar, ma quello era, un capannone – torna indietro con un mazzo di scope; le mette in mano a quelli che c’erano, e quindi anche a quel meccanico di Bagnacavallo amico di mio nonno, e gli dice che adesso devono ripulire la pista perché a lui quell’austriaco gli ha fatto venire il nervoso. Gli fa segno col mento di andare e si accende una sigaretta. Loro naturalmente non ci credono, ma dai, con questo tempo? Che non si vede da qua a là? Ma quando Baracca si metteva in testa una cosa, non c’era verso di fargli cambiare idea. Via ragazzi, trottare. E loro a dirgli ma guarda che di matto ce ne basta uno al giorno e per oggi c’è quello là, che bisogno c’hai di andar su anche tu, vedrai che si ammazza da solo. Ma lui niente, non li stava a sentire. Si era fatto dare una sciarpa – di seta! Con quel freddo! – e se l’avvolgeva intorno alla testa mentre quelli, coi badili perché le scope non servivano a niente, gli ripulivano un pezzo di pista in modo che potesse decollare, ma sempre protestando e tornando indietro ogni cinque minuti per dirgli che gli aveva dato di volta il cervello. Dicevano così, ma intanto erano anche tutti inorgogliti. Eh sì, perché ci mancherebbe, lavorare per un asso come Baracca, anche quando dà di matto; anche solo avergli pulito le scarpe o, nella fattispecie, la pista, era una cosa che dopo te la rivendevi per tutta la vita, in piazza la domenica e nelle osterie tutti gli altri giorni: era come essere il panettiere di Nuvolari, il dentista di Pantani, capisci? Insomma, com’è come non è, alla fine tirano fuori l’aereo dal capannone. Devono versarci sopra dell’acqua bollente perché tutti i marchingegni si erano gelati, però spingi una volta, spingi due, spingi tre, al decimo tentativo il motore si accende, l’elica gira, e via, Baracca si tira giù gli occhiali e dopo un attimo, sbandando a destra e a sinistra per i colpi di vento, oplà!, anche lui sparisce dentro alle nuvole. Non ti dico l’agitazione. Da terra si sentivano i motori, sembravano due vespe in quel silenzio: due vespe dispettose e vendicative, e ogni tanto sembrava che si avvicinassero, poi invece si capiva che si stavano allontanando. E tutti con la testa in su a sperare di vederli spuntare, e in effetti dopo un po’ è successo, si apre per un attimo uno squarcio fra due nubi, passa qualcosa, e tutti a urlare: È lui, è Baracca!, e poi sparisce, ma un attimo dopo nello stesso squarcio compare l’altro aereo, sta correndo dietro a quello di prima, e subito tutti cambiano idea, e si mettono a urlare ancora: È lui, è Baracca!, solo che se Baracca era quello non poteva naturalmente essere anche quello di prima. Ma soprattutto aspettavano, diceva quel meccanico di Bagnacavallo amico di mio nonno, di sentire le mitragliatrici, perché un conto è volare nella tempesta di neve in condizioni atmosferiche proibitive, e un conto è volare nella tempesta di neve, in condizioni atmosferiche proibitive, con uno che ti spara addosso. C’è voluto un bel po’, e intanto gli aerei erano riapparsi e scomparsi un tre o quattro volte, traballavano come scialuppe in una mareggiata, e ogni volta nessuno poteva dire con sicurezza quale era Baracca e quale l’austriaco, e tutti a mordersi le labbra e a pensare a lui là per aria in mezzo al fumo, alla neve, al niente… Fatto sta che di punto in bianco, ecco, si mettono a sparare, due raffiche neanche tanto lunghe, e poi altre due; e adesso sì che un aereo lo vedono bene, col cuore in gola vedono spuntare dalle nuvole un aereo che vola sempre più basso, sarà lui non sarà lui, e dal motore gli esce un filo di fumo, un filo che però s’ingrossa, s’ingrossa, e quando gli passa sopra la testa vedono le croci uncinate sotto le ali, e poi l’aereo si infila in un banco di nebbia e non se ne sa più niente”.
Il maestro, che mi ha quasi strozzato tirandomi la sciarpa nei momenti più emozionanti, adesso fa una faccia strana, sorride e fa segno di sì come se al posto mio ci fosse Francesco Baracca, col chepì e i baffetti, e fosse il momento di congratularsi. Poi però cambia espressione, fa segno di no con la testa, si rattrista.
“Solo che nessuno ha mai saputo che fine ha fatto quell’aereo là. Nessuno, almeno fra gli italiani, l’ha visto cadere, anche se non potevano esserci dubbi, conciato così non era andato lontano. Ma il bollettino austriaco non ne ha parlato, gli osservatori dai palloni frenati non hanno visto niente, anche se ci sono voluti due giorni perché finisse la nevicata, e intanto chissà… Ecco perché non si sa bene quante siano state le sue vittorie, di Baracca. C’è chi dice 34, noi qua questa la contiamo e anche un’altra, e diciamo 36; magari saranno state anche di più. Se non c’erano le prove, la vittoria non te la davano, non contava. A quell’epoca Baracca aveva vinto diciannove duelli; gli avrebbe fatto proprio piacere arrivare a venti, fare cifra tonda. Ma l’ha capito subito, lui, che quel gesto di coraggio folle non avrebbe contato in nessuna statistica ufficiale: sarebbe stato solo… un regalo, ecco: un regalo per loro, per i pochi testimoni, per dargli qualcosa da raccontare da vecchi, a chi non si era ancora stancato di ascoltarli. L’ha capito subito e quando è tornato giù, e non ti dico come ha fatto perché anche questa sarebbe una storia da mezz’ora; quando ha toccato terra e gli sono corsi incontro a fargli festa, e gli hanno dato un bicchiere di cognac, lui li ha guardati tutti, poi ha guardato in silenzio verso le linee austriache, dove la neve faceva mulinelli, dove dell’aereo nemico non c’era traccia, e ha scosso la testa”.
Si sentono dei passi dall’altra parte del portico, una figura intabarrata fila via, sparisce subito. Il maestro tira su col naso. Si è tanto agitato e adesso sembra più stanco di Baracca al ritorno dal volo. “Sai”, mi spiega prendendomi sottobraccio e incamminandosi finalmente verso casa, “tutti a quel punto pendevano dalle sue labbra. Erano tempi così, ci voleva sempre una bella frase patriottica, a effetto, da stampare sulla Domenica del Corriere, con l’illustrazione di Beltrame, in modo che poi tutti l’avrebbero ripetuta agli amici, ai figli e ai nipoti”. La nevicata adesso è meno fitta, forse fra un po’ smette. Ci allontaniamo dalla piazza, piano piano. “Ma lui, Baracca, zitto. Guardava nella nebbia, tirava su col naso, un po’ per la cocaina, un po’ perché si sentiva ancora puzza di bruciato, ma era una puzza non documentabile, non sarebbe servita a niente. Adesso a te sembrerà strano, se hai visto le sue foto, sempre elegantissimo, col foulard bianco sotto il colletto dell’uniforme, impeccabile, mica come in questo monumento qua, che chissà perché gli hanno messo la tuta. Sì, Baracca veniva da un’ottima famiglia, sua madre era contessa: avevano la terra, avevano i cavalli; aveva anche vinto un concorso ippico, prima di scoprire gli aeroplani. E poi era diventato un asso dell’aviazione, e gli aviatori si sentivano gli eredi di Orlando e di Rinaldo, era tutto un congratularsi fra nemici, un salutarsi dopo la battaglia. Tutto questo è vero, ma è vero anche che lui era uno di qua, un romagnolo, uno di Lugo. E insomma, quel tipo di Bagnacavallo ha raccontato a mio nonno, e guarda che non scherzava, gliel’ha proprio giurato; gli ha raccontato che, quando finalmente si è deciso a aprir bocca, e tutti si preparavano a battergli le mani, e magari qualcuno aveva tirato fuori un quadernetto e la matita per segnarsi la frase storica, Baracca ha detto: Va a finire che sono rimasto su un’ora per niente come un patacca a ghiacciarmi i maroni”.
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