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Sala conferenze - Hotel Ala d'Oro

Via Matteotti, 56 - 48022 Lugo di Romagna - (Ravenna) - Italia
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sabato 26 aprile 2008

"L'ombelico di Venere". Serata conviviale dedicata al cibo e alla filosofia

Una serata conviviale sarà l'ultimo appuntamento del mese di aprile per Caffè Letterario. Mercoledì 30 aprile alle ore 20,30 nella sala conferenze dell'Hotel Ala d'Oro il filosofo Giovanni Barberini ci parlerà di cibo e filosofia in una dissertazione dal titolo "L'ombelico di Venere. Dal mito alla modernità. Convivio semi serio sull'importanza della filosofia a tavola e della tavola nella filosofia." A partire dall'analogia fra il nutrimento del corpo e il nutrimento della mente è possibile riconsiderare il rapporto, in verità non troppo sotterraneo, fra il cibo e il pensiero. Fra le cose che distinguono l'uomo dagli altri esseri viventi vi è il particolare legame che egli, sin dall'inizio della sua storia, ha istituito con il cibo. Gli animali si nutrono, l'uomo mangia e, nel mangiare, non si accontenta di consumare gli alimenti, ma insieme li pensa, ha, cioè, nei confronti dei cibi, un rapporto eminentemente simbolico. Questo appuntamento, è stato organizzato in collaborazione con la delegazione di Lugo dell'"Accademia Italiana della Cucina" in occasione della rassegna gastronomica "Lugolosa" che si terrà a Lugo dal 28 aprile al 4 maggio. Il pranzo di Babette di Ivano Nanni Ho sempre pensato di far parte di un club senza statuto ordinario i cui membri si riuniscono quando ne hanno voglia, senza un calendario fisso, mossi solo da un una improrogabile esigenza di condividere un po’ del loro tempo in rilassante conversazione davanti a un buon piatto e a un calice di vino. Faccio parte di questa specie di circolo come tantissimi, e ne sono contento, mi piace e mi ci diverto sempre, penso che non sia mai tempo sprecato quello che si passa in buona compagnia. Detto questo, mi lascio sempre sedurre dalla arcinota battuta di Groucho Marx -- non vorrei mai far parte di un club che avesse fra i suoi membri uno come me – , e questa battuta, a mio parere, sembra fatta apposta per diventare il motto di tutte i simposi e tavolate conviviali, come argine oltre il quale la conversazione da umoristica e distesa, può diventare un po’ troppo seriosa, un po’ troppo vicariale. Niente di male, intendiamoci, a me piacciono i vicari, se potessi nominarne uno lo farei immediatamente e gli darei l’incarico di presenziare tutti i giorni al mio lavoro, a sostituirmi in una incombenza noiosa, o a dire per me “mi dispiace questa cosa non la posso fare”, una frase che non vorrei mai pronunciare per paura di deludere e dispiacermi di aver creato dispiacere. Vorrei insomma che fosse un altro me stesso a dire le cose che non mi sono gradite, per questo vorrei un vicario, oppure, dal momento che siamo nell’epoca della riproducibilità tecnica umana, propenderei per un clone. Il mio sogno proibito è quello di essere partecipe( alle cose più sgradevoli), per interposta persona o per clonazione pura, demandando le incombenze a “un altro” e, guardare da un po’ distante. Ovviamente non permetterei al mio amico ombra di fare tutto quello che vuole, non sarei il suo commesso, non diventerei il servo di un servitore, le cose buone le terrei per me, sarei io e non “lui” a farne esperienza diretta. E certamente una delle faccende per cui il mio “altro” potrebbe prendersi una vacanza riguarderebbe la parte buona della vita dalla quale non prenderei per niente le distanze, perché si tratta proprio di quella appartata occasione di benevolenza tra amici che, grazie al cibo, prende il nome di banchetto. Quando ci si siede a tavola ci si apre a un mondo, quello del cibo, così carico di promesse e di attese che è determinante la sua gradevolezza, se è vero,come credo che sia, che il fine di ogni convito è quello di produrre buone relazioni tra i commensali. Non ho mai visto produrre buone relazioni da un cibo scadente e da un vino modesto: Goethe dall’alto del suo genio annuncia che la vita è troppo breve per bere vini mediocri, e chi ha un minimo di esperienza in materia sa quanto sia vero il detto, perciò è sempre stato il cibo migliore a creare quel quantum di felicità che ha sempre prodotto le affinità migliori tra i commensali, che li ha sempre messi di buon umore al punto tale da non lasciarsi affliggere da un conto troppo salato. Davanti ad ottimi piatti si sono chiusi affari che i tavoli dei consigli di amministrazione, notoriamente spogli, avevano lasciato irrisolti; Oscar Wilde diceva che quando si sedeva a tavola perdonava tutto, perfino i suoi parenti, e senza dubbio il buon cibo ne era responsabile, non si seducono belle donne davanti a un piatto di lenticchie, come non si è portati a nobili pensieri se si beve del vino pessimo. Lo ha detto il cuoco e pure l’enologo, autori impareggiabili della fenomenologia della pancia piena. Il buon cibo predispone alla contentezza e al perdono, alla comprensione e alla civiltà, e basta guardare le sequenze di –Miseria e Nobiltà- per rendersene conto. Una famiglia di morti di fame triste e incarognita, impegnata a escogitare improbabili spese dal pizzicagnolo, riceve un dono inatteso, miracoloso, quello di un lauto pasto, un pasto da ricchi, in cambio di un servizio particolare, quello di spacciarsi per dei nobili e presentarsi alla casa di un ricco commerciante fingendo di essere quello che non sono. Ma per darsi un contegno da ricchi e nobili serve far sparire la povertà dalle loro facce e riempire lo stomaco. Ci vuole cioè una trasformazione. E per degli affamati solo il cibo può compiere questo miracolo. Davanti alla zuppiera fumante avviene quel miracolo prospettato da Wilde, i parenti perdonano ai parenti anni di liti e di magagne, la famiglia di affamati trova a una insperata joie de vivre ballando la tarantella sul tavolo con Totò che si riempie le tasche della giacca di bucatini. Ma ancora più sorprendente è un film, sul cibo, sull’arte di prepararlo e sulla seduzione, di qualche anno fa. Anche questo è un simposio ma più sbalorditivo di quello di Platone, se mi è permesso dirlo, per il tipo di commensali coinvolti. Se nel Simposio di Platone i commensali sono già predisposti alla conversazione e al convivio per pratica dialettica, sono tutti filosofi e poeti, risulta che il cibo non è poi così centrale per le sorti del dialogo; invece per il Pranzo di Babette, è questo il film, è il cibo, cucinato in modo magistrale dalla grande cuoca in incognito nelle terre fredde di Danimarca, a provocare una vera illuminazione tra i commensali, a farli rivivere. Questi sono dei contadini bigotti, calvinisti e penitenziali che lavorano, pregano e vivono spegnendosi un poco alla volta nella tristezza di giorni pieni solo di ricordi nel loro sperduto villaggio, privo del calore del cibo e della buona conversazione, odoroso solo di cavoli e patate bollite. Babette, per ringraziare quella santa comunità per l’accoglienza ricevuta, prima di fare rientro in Francia, decide di regalare a quelle semplici e sante persone un pranzo come si mangia solo in un grande ristorante francese. E quella comunità di vecchi oranti, silenziosa e imbarazzata fino all’inverosimile, davanti a quei piatti che solo un generale francese apprezza fino all’estasi, lentamente si scioglie e dapprima si guardano con imbarazzo, poi cominciano ad apprezzare: le gote delle vecchie si fanno rosse, i nasi dei saggi anziani diventano rubizzi, gli occhi umidi di gioia, colmi della stessa joie de vivre di Totò, che non sanno esprimere a parole e meno che mai ballando, ma che mostrano con una contenuta ebbrezza e ilarità a fine pranzo. Quando escono e tornano alle loro case, si ha la percezione che si sia formata una nuova comunità, basata su un nuovo ordine e su una rinnovata fede nei rapporti personali, una vera comunità amorevole e piena di fiducia. Raccolti nella loro gioia così come siamo noi quando ne parliamo, ricordiamo la santa Babette che compie il miracolo facendo scendere le sue stelle michelin tra le lande di Danimarca illuminando i fortunati di luce e proteine sotto forma di un menù divino. Ecco il menù della serata: Tortellini alla bolognese al ragù, Cassoulette, Carne di manzo con salsa bernese, Ratatouille Dessert Caffè €.20,00 bevande incluse (prenotazioni al 0545 22388)

Cibo e filosofia da "La gola del filosofo. Il mangiare come metafora del pensare" di Antonio Tagliapietra Nelle antiche raffigurazioni iconografiche la filosofia era rappresentanta come un'orsa colta nell'atto di divorarsi la zampa. Questa figura era simbolo dell'autosufficienza della disciplina che, come recitava il motto che spesso si accompagnava all'immagine, "ipse alimenta sibi", "trae da se stessa il suo proprio nutrimento". Tuttavia, al destino autofagico della filosofia può fungere da divertente appendice aneddotica l'esame di quello che già Michel Onfray chiamava "il ventre dei filosofi". Guardare i filosofi dal punto di vista della pancia, infatti, può riservare qualche divertente sorpresa. Per esempio, Platone era ghiottissimo di fichi secchi e olive, che divorava anche all'Accademia, fra una lezione e l'altra. Se Platone preferiva, per così dire, degli stuzzichini, le abitudini alimentari di Aristotele dovevano essere, indubbiamente, più ricercate dal momento che la tradizione ci dice che avesse una ricchissima collezione di pentole. Le prime prescrizioni dietetiche in filosofia risalgono tuttavia a Pitagora che, circa un secolo prima di Socrate e Platone, per i seguaci della scuola pitagorica aveva prescritto una dieta prevalentemente vegetariana, a base di verdure cotte e crude, sale, pane, acqua pura, vietando assolutamente il consumo del pesce fragolino, del melanuro, della matrice, della triglia, del cuore degli animali e delle fave. Epicuro, invece, pare debba la cattiva nomea dell'epicureismo non solo al frutteto dove si incontrava con i suoi discepoli - il Giardino che diede nome alla sua scuola -, quanto al suo debole per il formaggio cotto in una pentolina, una specie di fonduta valdostana ante litteram. Diogene e i cinici furono gli inventori del "fast food", perché per primi predicarono la necessità di consumare i cibi per strada e in piazza, senza troppe cerimonie né preparazioni, nutrendosi contemporaneamente (e quindi, si suppone, in una forma che ricorda il moderno sandwich o il panino) del pane che faceva da piatto e del companatico che esso conteneva, in genere una manciata di lenticchie o di lupini, fichi secchi o olive. Di Zenone di Cizio, caposcuola degli stoici, è nota la predilezione per i fichi verdi, il miele e il vino. Di quel Carneade su cui s'interrogava il don Abbondio manzoniano, che fu uno scettico in seno alla scuola platonica, non conosciamo i gusti alimentari, ma sappiamo che era solito farsi imboccare da una schiava, perché, tutto assorbito dai suoi pensieri, dimenticava persino di portare il cucchiaio alla bocca. Per venire a tempi più recenti è nota l'assoluta predilezione di Kant per la senape, con cui insaporiva i pranzetti che, a detta dei biografi, il filosofo era solito preparare per gli allievi più cari. Ma il debole di Kant era il caffé, di cui, nonostante temesse gli effetti nocivi, si concedeva ben due tazze ogni mattina. Fra i secondi la predilezione di Kant andava senza dubbio al baccalà, di cui, anche quand'era sazio, non disdegnava di "fare il bis", magari con il piatto "fondo" ben pieno. A detta dei biografi, poi, Kant a tavola, lungi dall'intrattenere i commensali con discorsi filosofici o sulla rivoluzione che, in quegli anni, era all'"ordre du jour", preferiva discettare, con minuziosa precisione, sulle pietanze e sulle loro ricette che, se invitato, non esitava a richiedere insistentemente ai padroni di casa. Altra cosa, di certo, rispetto a quei fiocchi d'avena di cui, a quanto pare, si nutriva quasi esclusivamente l'ascetico Wittgenstein. Completamente digiuno di cucina era, al contrario di Kant, il buon marchese di Condorcet, la cui scarsa confidenza con pentole e pignatte fu, a suo modo, fatale. Durante la fuga dalla ghigliottina, infatti, il blasonato "philosophe" del progresso infinito dell'umanità giunse sfinito ad un'osteria di campagna e, per rifocillarsi, chiese allo stupito avventore un'omelette di ben dodici uova. L'oste, insospettito, lo consegnò subito alle "cure" dei sanculotti. Sulla predilezione dei filosofi per la bevanda dionisiaca per antonomasia ci sarebbe, poi, molto da dire - Massimo Donà, di recente, ce ne ha dato ampio assaggio con la sua "Filosofia del vino" -, cominciando da quel buon rosso (non si sa se fosse un Bourgogne, in onore della Révolution, o un nostrano Barolo, come anche poco prima di morire Hans Georg Gadamer confidava di preferire) che Hegel stappava ogni 14 luglio, per ricordare la presa della Bastiglia, e ogni 31 ottobre, per commemorare l'inizio della Riforma protestante, o dal rosso bordolese del quale Montesquieu in persona curava la vendemmia. Ma non avendone lo spazio, ci limitiamo a ricordare quella del religiosissimo Kierkegaard, che associava volentieri il vino al pollo (arrosto o lesso non ci è dato sapere). Più vicina a noi va ricordata la passione di Martin Heidegger per il "Kartoffelsalat" e, in negativo, l'assoluta imperizia di Ernst Cassirer in cucina. Entrandovi forse per la prima volta durante un'influenza della moglie, il filosofo delle "forme simboliche" mise a scaldare il latte sul fuoco con tutta la bottiglia, producendo una disastrosa esplosione che, negli ambienti accademici tedeschi, fa ancora sorridere.

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