



da “Il paese delle spose infelici”
di Mario Desiati
In un luogo dove le spose erano infelici fece stupore quello che accadde un marzo mite del 1990. Il Taras era il torrente sottile che si attorcigliava al Siderurgico. La sorgente che lo generava veniva dal sottosuolo, si dice fosse miracolosa. Anni prima un cavallo zoppo e morente fu gettato
nel ruscello, invece di annegare riprese vitalità ed emerse correndo per il lungofiume. Per molto tempo la gente di Taranto pensò di curarsi dalle malattie e dai sortilegi con i bagni nel Taras. Quel giorno erano le due, il letto era semiasciutto, ma un piccolo rigagnolo dai colori melmosi percorreva i dossi formando cascate. In inverno quell’acqua era tiepida come la conca di un bagno termale, emanava zaffate di vapore come se dentro si raffreddassero le carcasse bollenti dell’acciaio del Siderurgico. Non era chiaro se quella mitezza fosse dovuta al grande impianto o alla sorgente. Alcuni operai in quelle giornate di tepore improvviso dopo un inverno tetro passavano la pausa pranzo cibandosi
sopra uno strapunto a forma di stivale. Questo cresceva a pochi metri dalla sorgente del torrente, dove l’acqua era miracolosamente limpida, colorata di riflessi rosati mutuati dal cielo rosso che solo Taranto ha e il fondofiume granata della bauxite. Era marzo, il sole era già generoso, ci si poteva spogliare e restare in camicia e salopette, mettere gli occhi chiusi contro i raggi lievi e ricevere il miracolo dell’arrossamento di quelle facce gialle di altoforno. La dozzina di operai che mangiavano panini, piluccavano spicchi di arance irradiando nell’aria l’aroma acre di agrumi; ebbero un miraggio collettivo, una visione che avrebbe sbalordito chiunque: una donna vestita da sposa veniva dall’orizzonte fosco
delle campagne. Camminava altera con la gonna alzata, le scarpe bianche erano infangate, le calze di nylon da bambola brillavano, le spalle nude ardevano sotto il sole invernale. I capelli chiari erano raccolti in su e acconciati a strati come tanti nidi di pernici, il collo lungo sfiniva in un viso con l’espressione premonitrice. Gli occhi parevano dipinti, nei sistemi solari delle deliziose efelidi attorno alla bocca c’era come il manifestarsi di una divinazione. La sposa regalò una sbirciata maliziosa a gli spalti di maschi appisolati, appena saziati da panini frugali. E poi entrò nel fiume senza neanche togliersi le scarpe, mollando
improvvisamente la gonna che si alzò sul pelo dell’acqua come la rete di un peschereccio. E fu la cosa più bella che videro quegli operai, uomini che ogni giorno si bardavano come soldati disperati, i sopravvissuti di una guerra nucleare, i liquidatori di una centrale atomica. La gonna parve aprirsi come un ventaglio. La sposa apparve come un cigno bianco e gli uomini non potettero resistere. Perché? Forse la posa statuaria, il viso impassibile dentro l’acqua, l’abito che si gonfiò e sembrava allargarsi quanto tutto il fiume. Tutto sembrò finire sotto la mongolfiera di tessuto prezioso. Così gli uomini sfidarono il freddo e spogliandosi con concitazione, zampettando su una gamba per togliersi i pantaloni il più in fretta possibile, si gettarono dietro quella sirena, quel mistero di bianco, oro e avvertimenti. La donna smise di andare verso l’acqua alta e attese lo sciame disperato di muscoli bruniti, petti ispidi, braccia ingiallite, occhi stregati.







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