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mercoledì 14 ottobre 2009

"Non congediamoci dall'umanità" di IVANO NANNI

Sull'incontro con PAUL POLANSKY di lunedì 12 ottobre. Ogni santo giorno, per chi crede che i giorni siano un dono, ne prendiamo fisicamente atto. Le cose che ci accadano anche non direttamente ci cambiano, agiscono sul nostro umore, sul modo di vedere le cose, smuovono convinzioni, vengono rimossi pregiudizi che parevano incastonati come rocce nel nostro perimetro di conoscenze. Ogni giorno qualcuno o qualcosa diviene per noi, anche per poco, un piccolo faro di limpidezza, una trasmittente tra noi, i riceventi, e ciò che ci muove accanto ma che non vediamo, non apprezziamo, o semplicemente non abbiamo desiderio di conoscere. Lo spavento e la paura riducono tuttavia le distanze e la pulsazione crudele della parola non sconta il dolore ma lo suddivide in blocchi che rendono chi li guarda meno assenti. Certe zone, o interzone come potrebbe dire William Burroughs, sono le discariche delle nostre menti e ponti tra noi e il male che riusciamo a progettare, e ad esercitare con convinzione. Spesso però è l'assenza di principi condivisi, una visione politica alterata della realtà, cinismo e ignavia a seppellire le persone prima ancora che le armi le uccidano. Sono i disastri ambientali che le istituzioni producono e che alternano ai principi di salvezza che propagandano. Le distanze tra le sponde aumentano e i ponti diventano sempre più improbabili, ma non per questo il progetto deve mancare. Ci sono persone che nella loro limitata capacità come singoli diventano agli occhi di chi sa guardare dei titani del mondo che si sono scelti di rappresentare. Le loro orme si vedono da lontano, occorre allontanarsi per vederle bene, diventare un occhio satellitare per osservarle bene. È questo “ sguardo dal di fuori “ che ci assiste nella visione del mondo, un mondo che muta al passaggio di persone coraggiose. Essi passano lenti su quel lembo di terra dove operano e ascoltano voci e lamenti, colgono lo strazio, la vergogna, il genocidio, la morte. Colgono la presenza del male tra i fermenti di vita che pure germina tra gli esclusi, progetta ponti e spande nel mondo la voce degli ammutoliti e spiega ciò che emerge dal basso ventre della terra, dagli inferi. Spezzare le radici del male, svellere quel tanto che piega il mondo a un male non necessario è un nobile intento. Il male si radica nella terra e queste radici convulsamente scendono nelle profondità della terra da cui bevono i ricordi dei morti e danno frutti amari. Nel cuore dei Balcani, la terra non è dei contadini che la lavorano e dei pastori che ci fanno pascolare le pecore, e nemmeno delle donne che ci allevano i figli, questa terra è l'origine, l'inizio non del mondo intero, ma di un particolare mondo, piccolo e straordinario per elezione, considerato come il luogo sacro e magico in cui il sangue di un popolo ha ricevuto la benedizione della divinità. La terra ha prodotto il suo popolo e questo popolo ne difende i confini e come un anticorpo ne espelle i virus in una lotta che non prevede una condivisione del territorio. E la medicina, istituzionale, e forse omeopatica nelle dosi, o semplicemente sbagliata è il palliativo che inibisce il contatto ma non lo esclude. Non cura, non difende, non lavora per stabilizzare il paziente, non guarisce. Il più forte uccide il più debole e in mezzo c'è chi mostra quello che accade e ne fa oggetto poetico, documentario, un atto d'amore che emerge come un relitto nel naufragio della nostra buona coscienza. La terra deve unire e non dividere, ma succede che nelle zone dove si concentrano simboli della religione e del martirio le esasperazioni portino a stermini di massa. Perciò mostrare quello che accade, raccontarlo nella sua cruda realtà è cercare di liberare l'occhio che guarda dal pregiudizio della religione, dal simbolo che quella terra, la terra del Kosovo rappresenta per alcuni. Non è un caso che il ponte di Vukovar, ancora un ponte che crolla, sia stato ricostruito, non è solo logistica imprenditoriale, è darsi una possibilità di accedere a quella parte di umanità che il crollo ha isolato. Quando si spezza un ponte diventiamo tutti più poveri umanamente, diventiamo isole, e spezzandoci in tronconi ci indeboliamo. Rimaniamo attoniti e sperduti dietro alle nostre linee difensive. Spezzare un ponte è dimostrare tutta la nostra paura. Una volta pensavo, con qualche perplessità, che l'umanità o era una cosa sola o non era niente, ora non solo ne sono convinto ma credo che solo se sarà una cosa sola i conflitti potranno essere prescritti. Decaduti per decorrenza dei termini di sterminio. di Ivano Nanni

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