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lunedì 23 novembre 2009

"Almeno lui..." di Claudio Nostri

Sull'incontro con LEONARDO COLOMABATI di venerdì 20 novembre Speravo che lui, almeno lui non l’avesse fatto. E invece anche lui, l’Avvocato per eccellenza, uno dei più grandi industriali del vecchio continente, il simbolo del capitalismo italiano, l’amico di Kennedy, Kruschev, Rotschild e Fidel Castro, insomma il vero Re d’Italia, in punto di morte, negli ultimi giorni della sua vita, minato dal male che lo sta divorando, ebbene sì… si pente! Che delusione! Va detto subito, ad onor del vero, che nel libro di Colombati non si tratta di un vero e proprio pentimento cristiano, benedetto da una sincera e contrita confessione sussurrata negli orecchi di un povero fraticello in odore di santità, ma piuttosto sembra aver la forma quasi di un’ultima pratica burocratica da sbrigare, dettata di fronte a un distinto porporato, come del resto si conviene a un moribondo del rango di Gianni Agnelli. La delusione vera è vedere l'Avvocato sofferente in un letto, macerato dai ricordi del passato, sovrastato da un groviglio di dubbi e di rimpianti, terrorizzato dalla morte perché consapevole di aver lasciato tanti conti in sospeso e soprattutto immaginarlo così disperato quando, ormai troppo tardi, si rende conto, illuminato da una visione folgorante, che l’unica cosa che ha valore nella vita è l’amore che abbiamo saputo dare agli altri. Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Ora io non conosco bene la biografia dell’Avvocato ma mi pare di ricordare che nella sua vita non si sia macchiato di azioni criminose particolarmente efferate né tantomeno sia mai stato punito in maniera esemplare da quell’unica giustizia che ci dovrebbe riguardare, cioè quella degli uomini. D’altro canto l’essere a capo di un impero economico di così grandi dimensioni l’avrà costretto, o per lo meno spinto, a scelte e decisioni discutibili, talvolta forse ai margini della legalità e tante volte certamente assunte con quel pragmatico “pelo sullo stomaco” che sembra essere una caratteristica abbastanza comune fra i capitani d’industria. Più o meno quello che capita, facendo le dovute proporzioni, alla stragrande maggioranza dell’umanità. E poi l’amore… famosa la frase che molti biografi gli attribuiscono e che viene ricordata, spesso con un moto di repulsione, per ribadire la sua aridità sentimentale: «L’amore? È una cosa da cameriere». Be’ in una società dove la parola amore è usata quasi sempre a sproposito, dai “tre metri sopra il cielo” ai bassifondi dove allignano romantici pseudo-vampiri, per non parlare della televisione e dei suoi piagnucolanti programmi sul tema, insomma, mi sembra che sia quasi una frase intelligente. Non tanto lontana da quello che sull’argomento diceva Gesualdo Bufalino: «L'amore è un sentimento inventato: ciò che conta è il gioco della seduzione, il rituale di piacere a qualcuno». Dall’altro lato penso invece che il Signor Fiat sul suo letto di morte fosse consapevole della straordinaria vita che il fato gli aveva dato in sorte. Un’esistenza dalle possibilità praticamente illimitate. L’aver avuto l’opportunità di poter assaporare tutte le dolcezze della vita ai massimi livelli, dal cibo, ai viaggi, alle donne per non parlare degli incontri e delle amicizie coi personaggi più importanti della politica, della cultura, dello spettacolo. Mi piace pensare allora che l’Avvocato nei suoi ultimi momenti di lucidità, visitato da lugubri fantasmi ultraterreni che gli intimavano di pentirsi abbia semplicemente risposto come il grande Don Giovanni: No! di Claudio Nostri

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