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Sala conferenze - Hotel Ala d'Oro

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venerdì 6 giugno 2008

Una grande serata con il giudice AYALA

Straordinaria serata quella di ieri sera per Caffè Letterario col giudice siciliano Giuseppe Ayala che ha presentato il suo libro appena edito da Mondadori “Chi ha paura muore ogni giorno. I miei anni con Falcone e Borsellino.” Sul palco insieme a Giuseppe Ayala erano presenti il Sindaco di Lugo Raffaele Cortesi e il curatore di Caffè Letterario Marco Sangiorgi che ha introdotto la serata. Sala strapiena e pubblico delle grandi occasioni per ascoltare il giudice siciliano che ha raccontato per più di due ore la sua verità su Falcone e Borsellino, sulla storia di quegli anni, le passioni civili e private e le vicende quotidiane che nessuno meglio di Ayala poteva conoscere. Grande successo anche per il libro, che nonostante sia uscito in libreria soltanto da pochi giorni è già alla seconda ristampa e sta scalando le classifiche di vendita.
Brancati in procura di Ivano Nanni
Credo che il giudice Ayala appartenga a quella razza di siciliani che pur masticando amarezze e tragedie per anni riescono miracolosamente a dare spirito e humour alla loro vita e alle loro parole con una radicalità e una vivacità uniche. Lontanissimo dallo stereotipo del siciliano muto e corrucciato che parla a grugniti e ti guarda storto da sotto la coppola, Ayala è il giudice che per primo nel 1987 osò dare il primo ergastolo a Totò “o curto “, il capo di cosa nostra in Sicilia, e a innumerevoli altri boss ringhianti dentro le gabbie del maxibunker a prova di missile. Un miracolo dentro al miracolo se si pensa che l’opera mastodontica venne realizzata nel tempo record di sei mesi. L’evento senza dubbio fu unico nella storia dell’edilizia italiana, irripetibile di certo, ascrivibile a quel tempo che connotava molto bene le aspettative che si avevano nei confronti di quella situazione(il processo), tanto grave quanto anomala per l’Italia tutta. È impossibile dimenticare che per la prima volta, alla sbarra, anzi dietro le sbarre, arrivarono i boss, non solo i pesci piccoli ma i grossi pescecani, quelli che fanno venire i brividi solo a nominarli. Arrivarono a camionate, 475 per l’esattezza, con le loro facce da contadini e da macellai di suini. Tutti arroganti e increduli, inviperiti dall’oltraggio di essere precipitati nel gabbione dei dannati dal quale non sarebbero più usciti. Senza dubbio Ayala, il Caronte che li traghettò negl’Inferi, aprì le cataratte del cielo e lasciò che il diluvio universale inondasse di pene esemplari tutti quegl’impuniti che fino ad allora non avevano mai temuto nulla da nessuno, e che ora, per la requisitoria di un giovane brillante che dava voce e forza alle precisissime folgori investigative di Falcone e Borsellino, stavano per andare in galera per sempre. Perché questo fu quel processo epocale: fu un punto di svolta inscalfibile perfino dal nugolo di legulei dei boss, fu così granitico da essere un’unica zavorra inamovibile sul cammino degl’assassini e che da questa vennero trascinati a fondo. Giuseppe Ayala, quindici anni dopo la morte dei suoi amici e colleghi, ha voluto tracciare un ritratto di quegli anni passati a Palermo a lavorare fianco a fianco con Falcone e Borsellino, che per primi, dal nulla, genialmente, e contro una miriade di colleghi sospettosi e imbelli, si erano inventati una strategia, un modus operandi che segnò per sempre l’arte dell’investigazione nelle cose di mafia. C’è una cosa da dire: visto da fuori, con gli occhi di chi leggeva le cronache macabre che ogni giorno arrivavano dalle contrade siciliane, con tutti quei morti ammazzati, questo gruppo di lavoro, minacciato da ogni parte e prima ancora là dove si presumeva dovessero esserci amici, appariva come un sparuto manipolo di eroi votati alla morte, come profetizzò perfino Tommaso Buscetta, grazie al quale il motore della madre di tutti i processi prese avvio, e non si capiva davvero perché dovessero farlo, perché rischiare così tanto, e probabilmente per non portare a casa nulla di fatto, come era successo fino ad allora. Attorno a loro la mafia faceva terra bruciata. I colleghi cadevano uno alla volta, uccisi. Ma non solo. Straziati dalle bombe affinché la paura diventasse terrore, sguardo spento sulla propria sorte, su un destino ineluttabile. La terribile visione di un corpo straziato a volte può cambiare il corso di una vita, di una storia professionale, di un’amicizia; davanti a un corpo martoriato anche la fermezza più granitica vacilla, la coscienza si turba e il cuore si riempie di pena per la consapevolezza che la lotta è impari e perdente, per la consapevolezza che non si vincerà mai, perché la morte ti cammina a fianco e tutto è irredimibile, violento, atavico come un olocausto tribale. Quando uccisero Rocco Chinnici, Ayala non volle vederlo, e ordinò alla scorta di accompagnarlo immediatamente in procura, dove rimase solo per un tempo indefinito e dolorosissimo. Aveva forse presagito un tentennamento della coscienza? Un giustificato e plausibile terrore se solo avesse visto il corpo straziato del collega? Forse sì, si può dire, ma Ayala per questo non andò, si rifugiò in procura, non aveva intenzione di farsi contaminare dall’orrore, consapevole che il seme della paura si radica in profondità se ci si abbandona alle immagini più devastanti, a quel disperato evento preferì l’isolamento del suo ufficio. In Ayala, come in Falcone e Borsellino, evidentemente qualcosa di diverso c’era. E quel diverso che c’era stava tutto nella stoffa delle loro motivazioni, nella forza della loro indignazione: era questa la molla che produceva quella ineguagliabile capacità di lavoro e quella tenacia imperscrutabile, vivida, solitaria. Con tutto questo sfidavano a viso aperto coloro davanti ai quali si doveva per forza abbassare gli occhi. Era come si fossero preso in carico insieme alla loro indignazione di cittadini, anche quella dei loro concittadini onesti e puliti, la maggior parte, e che avessero fatto il giuramento di riscattare quelle vite offese con la forza della loro professionalità. Perciò non erano eroi, né santi, ma qualcosa di più: erano uomini di passione, innamorati della loro terra, della loro gente, e del loro lavoro. Il tempo della tragedia si prende delle pause. Diversivi, distrazioni. Non furono certamente pochi i momenti in cui ci si distraeva, ridendo di tutto ben coscienti di ballare su una corda tesa sull’abisso. Si sono presi le loro piccole libertà, qualche bagno al mare, in compagnia, mai comoda, delle scorte armate, si sono ritagliati un tempo strano sospeso tra un faldone di verbali e una minaccia, si sono presi un intervallo rubato al lavoro, tra un’intercettazione e un sospetto di arroganza. Hanno vissuto al meglio delle possibilità che le circostanze consentivano e le vicende per lo più tragiche, sono filate via, veloci, corrette e luminose fino al giorno del buio assoluto. Fino al 93, quando in pochi mesi tutto venne annientato, polverizzato da quel Brusca, assassino di bambini, e impareggiabile macellaio che premette il pulsante che fece saltare con 500 chili di tritolo l’autostrada a Capaci. Dopo qualche mese a questo lutto se ne aggiunse un altro, un'altra bomba, in città questa volta, e un’altra strage. Così la mafia si prese il disonore di scrivere l’ epitaffio degli onesti su un pizzino di dinamite. Roba da far tremare chiunque. Nonostante tutto, l’humour di Ayala emerge forte, e amaro. Da quello che racconta, e soprattutto da come lo racconta. Specie quando ricorda di una sua gita a Rimini con amici, per sfuggire alla noia della sua triste cittadina, lì si avverte l’ironia sottile e meridiana, solare e nera insieme, tutta siciliana: lì si entra nelle più vive pagine di Brancati, che guarda caso, nel suo Don Giovanni, descrive la stessa circostanza e la stessa urgenza di andarsene dei suoi protagonisti, come fosse un topos erotico, quello del siciliano che se ne va al nord per cercare l’amore tra le nebbie e i ghiacci dolomitici con delle improbabili svedesi che li raggelano con il loro idioma impraticabile dalle quali fuggono per rientrare nelle loro comode pantofole catanesi. Divertente. Mi piace pensare che il giudice Ayala sia sopravvissuto per questo e non per solo fortuna. Perché non si può uccidere un personaggio e un erede di Brancati.

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