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Sala conferenze - Hotel Ala d'Oro

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giovedì 31 dicembre 2009

"Shock anafilattico" di SILVIA GOLFERA

Racconto inedito di SILVIA GOLFERA che è stata ospite di Caffè Letterario il 15 dicembre 2008 con il suo libro di racconti "La donna invisibile". Shock anafilattico Di te da bambino quasi non ho ricordi. Dove ti eri cacciato? Perché non venivi a giocare con noi? Va bene, eri più grande. Ma in fondo quattro anni che sono? Con chi giocavi tu? Mamma stava sempre a ripetermi di lasciarti in pace, che dovevi studiare. Questo me lo ricordo bene. A volte prima di venire a cercarti me lo dicevo da sola: “Lascialo stare. LUI deve studiare”. Allora arrivavo di soppiatto a tirare un calcio alla tua porta e scappavo via. Perché non mi hai rincorso? Io (te lo ricordi?) scorazzavo tutto il giorno per il quartiere, assieme ai nostri vicini, Pietro e Paolo. Come era lunga l’estate allora. Sembrava tante stagioni tutte insieme, che si mischiavano nel cuore. “Ecco che arriva la Maddalena!” esclamavi quando rientravo, sporca di terra e di croste. Ed io mi infuriavo, perché il mio nome è Laura, adesso e allora. Irrompevo in casa come la bufera, quasi sfondando la porta dove stava sempre infilata la chiave. La mamma seduta al tavolo della cucina a sistemare chissà cosa, alzava la testa. A volte era appena rientrata anche lei e si stava slacciando un foulard, una giacca leggera, i bottoni di un abito nuovo. Appoggiandosi al muro dell’ingresso, si sfilava le scarpe coi tacchi per indossare le pantofole. Io le scivolavo di fianco, sfiorandola. La rivedo ancora. Come se per sempre mi si fosse conficcata negli occhi. Con un gesto impaziente buttava indietro una ciocca di capelli ondulati che le coprivano una guancia. La ricordo sempre di profilo, la mamma, sempre in affanno e scontrosa. Solo oggi riesco a piantare il mio nel suo sguardo chiaro, annacquato, indifeso. Dovevi esserci anche tu lì attorno. Mi guardo in giro. Perché non ti vedo? “Fila a lavarti, prima che rientri tuo padre” m’intimava lei, e io di corsa mi infilavo nel bagno. Papà ci diventava matto che io me ne andassi in giro tutto il giorno con una banda di maschi. Mi chiamava selvaggia, testa buca, e mi proibiva categoricamente di continuare a farlo. Per questo rientravo sempre col cuore in gola prima delle sei, quando rincasava dallo studio. Senza diritto alla consolazione se in un gioco spericolato mi ero scorticata un gomito, o un bacchetto mi aveva graffiato a sangue un polpaccio, o un bambino più grande mi aveva spintonato giù dall’altalena, che avevamo costruito con delle vecchie corde, in fondo al cortile di Pietro. Ancora oggi, quando la sera mi sorprende per strada, un’inquietudine e un disagio mi assalgono, e un inconfessabile dolore mi attanaglia la gola. “Non ce la devi mandare- gridava poi alla mamma, quando si accorgeva che continuavo le mie scorribande –non capisci che si può far male. Con tutti quei disgraziati che stanno in giro! Voi neppure ve le immaginate le schifezze che ci stanno nel mondo. Io, che sono avvocato, ne vedo di tutti i colori. Lei è una bambina, finiranno per farle fare chissà quali cose!”. Io vigliaccamente mi chiudevo in bagno, oppressa dal senso di colpa per sentirli litigare a causa mia. Per sfuggire le voci, dentro la vasca, mi lasciavo scivolare sott’acqua. Immaginavo il mio funerale e voi tutti in lacrime al seguito: “Poverina…che fine!” “Eh si, è colpa nostra…farla soffrire così” “Che stupido sono stato…Non capivo la fortuna di avere una figlia così”. “La mia povera sorellina! Non mi perdonerò mai”…E io in solluchero nella bara. Nonostante la soddisfazione, pensavo però che sarebbe stato un vero peccato morire così presto. Vivere aveva qualcosa d’irresistibile ed ero sicura che da grande, quando nessuno più avrebbe potuto dirmi fai questo, fai quello, fila qua, fila là, sarei stata felice. Sarebbe stato meglio, pensavo in verità, che morisse il babbo. Il babbo della mia amica Giulia, per esempio, era morto in un incidente stradale, e lei viveva tranquilla. Non le toccava sgambettare sempre, cercare scuse, escogitare mille sotterfugi. Al minimo graffio andava a lamentarsi da mammina, che la prendeva sulle ginocchia e la chiamava ‘la mia povera Giulietta’. La sua casa era sempre ordinata e nessuno gridava mai. Niente a che vedere con noi. “Figurati se non glielo dico, ma sai com’è zuccona- rispondeva la mamma –mica posso tenerla chiusa in casa”. “Non so da chi abbia preso, suo fratello è un angelo!” urlava lui. Eri un angelo tu? In veste di angelo, cioè di messaggero, venivi a bussare alla porta del bagno: “Dai, vieni a tavola. Stiamo aspettando te”. Ma io non avevo nessuna voglia di uscire, e solo per timore di scene peggiori mi rassegnavo a comparire ancora sgocciolante sulla porta del tinello, gli occhi bassi per fuggire i vostri. Mi arrivavano solo le parole: “Vergognati, se continui così ti metto in collegio dalle suore”, “Con quelli non devi andarci in giro, siamo intesi? C’è da vergognarsi ad avere una figlia come te!”. La mamma diceva solo “Dai mangia”. Perché non mi difendeva? Non ho mai capito cosa pensasse. Diceva : “Tuo babbo non vuole”. Una volta in cui stavo finendo di pranzare e scalpitavo per scappare via, sei intervenuto tu: “Non seguire gli apostoli- hai detto con sarcasmo – babbo non vuole”. Stavo già per graffiarti la faccia, tu non mi puoi comandare, stronzo. Ma è intervenuta la mamma. “Lasciala stare- ti ha detto con voce rassegnata –che si diverta ora. Perché dopo c’è poco da stare allegri”. Perché la mamma era tanto infelice? Tu e lei eravate sempre insieme, con te deve avere parlato. Papà era un tipo strano, ma le voleva bene. Scriveva il nome di lei dappertutto, te lo ricordi? Sulla sua scrivania c’erano fogli interi disseminati di ‘Olga Ferretti’. Diceva che quando il lavoro si arenava, o doveva riflettere, lei lo rimetteva in pista. Io di parlarle non ho mai avuto il coraggio, neppure adesso. È così vulnerabile ora, e quando parla finisce col parlare di te e piange. Dice che quando eravamo piccoli era felice. Dice che senza di te la vita le è insopportabile. Allora mi venne un groppo in gola, ma non volevo piangere, perché quando lo facevo, non mi fermavo più e non riuscivo neanche a parlare. Non avevo più voglia di uscire, ma lo feci lo stesso per stizza. Per stizza contro di te che mi volevi comandare, per stizza contro di lei, che pretendevo felice. A volte con la mamma litigavo a sangue. Mi diceva: “Porta la merenda a tuo fratello. Sta studiando”. “E allora? Che se la venga a prendere lui!” ribattevo irritata. Non insisteva e sbuffando te la portava lei. Lo sbuffare, naturalmente era per me. Facevo i compiti anch’io, ma tu studiavi. E se volevo una merenda dovevo scendere in cucina e arrangiarmi da sola Questa mania che nessuno doveva disturbarti. Neanche il babbo, neanche la nonna, quando veniva a trovarci. Una mania che è durata tutta la vita. Se m’annoiavo durante i lunghi pomeriggi invernali, e venivo a bussare da te, mi cacciavi via subito. “Non rompere, vai di là”. “Posso stare un po’ qui? Non ti disturbo” “No, non riesco a concentrarmi” “Vuol dire che quello che fai non ti piace” “Può darsi, ma tu togliti dai coglioni” “No non me ne vado” “Guarda che ti do un pugno in testa” “E io lo dico alla mamma” “E lei dice che dovevo dartene due” “Sei uno stronzo” ti gridavo, prima di scappare via. Il cuore batteva all’impazzata per l’ira e quando ti sentivo finalmente uscire, passare di corsa per il corridoio, scendere le scale a due gradini alla volta, speravo che inciampassi e ti rompessi il collo. Solo lei aveva libero accesso presso di te. Ve ne stavate a confabulare te e mamma, in un angolo della cucina. Quando c’era papà facevate finta di niente, come se fosse tutto normale, ma io lo sapevo che eravate fidanzati. Ecco, mamma sembrava la tua fidanzata. Ti chiedeva consiglio su quello che comprava e cosa volevi per cena. Con te non alzava mai la voce. Non ti diceva fai questo e fai quello. Non ti ha mai strillato che la facevi dannare. Non ti urlava che la tua camera era un casino. Quasi aveva soggezione di te. Diventava anche allegra. Scompariva quella timidezza irrequieta che la perseguitava sempre. Come se tu fossi il suo orgoglio, il suo onore, il suo vanto, il suo scudo. Un giorno vi stavate preparando per uscire. Lei si sistemava i capelli davanti al grande specchio che stava in camera sua, si stendeva un velo di rossetto sulle guance, appena un filo di ombretto. Bagnava l’indice nell’azzurro e se lo passava veloce sulle palpebre. Io la spiavo, seduta su uno sgabello accanto a lei. “Dove andate? Posso venire anch’io?”. “No, abbiamo poco tempo- rispose senza guardarmi –tu vieni un’altra volta”. “Voglio venire anch’io!” “Non puoi- e assunse il tono paziente che si ha con gli irragionevoli –Ormai chiudono i negozi e tuo fratello ha bisogno di un vestito nuovo. Domani deve andare a un compleanno”. “Ma io non vi do fastidio!” “Non insistere…Poi se telefona la nonna, non trova nessuno”. La scusa della nonna, che abitava da sola e poteva aver bisogno, la tirava sempre fuori per liberarsi di me. Che avrei potuto fare per la nonna? Nient’altro che aspettare il suo ritorno. Insomma quel cazzo di pomeriggio stavate uscendo e io mi ero già infilata il cappotto per venire con voi. Non volevo starci a casa da sola e insistetti, insistetti più del solito, tanto che lei smise di rispondermi. Non cercò più di convincermi, semplicemente si sbatté la porta alle spalle, cioè in faccia a me. Rimasi immobile nella casa vuota e silenziosa, già un po’ buia. E non avevo voglia di niente. Né di muovermi, né di stare ferma, né di andare a guardare cosa ci fosse in frigo, né di accendere la tele, né di andare a rovistare negli armadi e nei cassetti dove trovavo sempre strani tesori. Lettere dalla calligrafia indecifrabile accompagnate da foto di un giovanotto in uniforme, che non mi sembrava il babbo. Guanti macchiati dal tempo, cappelli fuori moda, collane colorate che non le avevo mai visto indossare. Non avevo voglia di niente di tutto questo. Volevo solo vendicarmi. Iniziai dal bel rododendro che stava nell’ingresso, passai poi alla calle sotto la finestra della sala, al beniamino in tinello. Tornai in soggiorno per distruggere anche l’abete che da Natale attendeva di essere piantato in giardino. Sistematicamente strappai ogni foglia, e tutti i pezzettini li spargevo sul pavimento di marmo rosso. Non ci stavano male tutte quelle goccioline verdi. A ogni foglia strappata la paura per quello che stavo facendo si rinnovava, e lo sgomento e la vergogna. Ma più mi vergognavo più accanitamente lavoravo. Poi me ne andai in camera mia a leggere Oliver Twist, cui un poco invidiavo quella sventurata libertà. Vi sentii rientrare in cortile e l’eco del vostro chiacchiericcio arrivava fino a me, nonostante la finestra chiusa, e il segreto della sera. Percepii chiaramente lo scrocchio della serratura, il cigolare del portone e subito calare uno sbigottito silenzio. La mamma piombò in camera, senza dire una parola e mi mollò uno schiaffo. “Vai subito a pulire” ha sibilato. Con la scopa e la paletta mi sono messa al lavoro. Non mi accorgevo delle lacrime che scendevano, finché non arrivavano alle labbra e con la lingua le raccoglievo. Poi sei venuto tu a darmi una mano. “Tieni la paletta- hai detto –io spazzo più veloce”. Avevi un ciuffo corto e biondo sulla fronte e sorridevi in modo imbarazzato. “Devo andare a una festa domani, e non avevo niente da mettermi- hai detto –Se venivi anche tu, dovevamo stare dietro a te. La mamma aveva fretta, era già tardi”. Fingevo di non ascoltare. Era come se avessi deciso di tenermi stretta l’infelicità. Ma assieme alle lacrime bevevo ogni cosa che dicevi. A un certo punto, ricordo che mi sono piegata per raccogliere un mucchietto che avevi fatto, e tu ne hai approfittato per accarezzarmi la testa. Ma così, come se non si trattasse di una vera carezza. Piuttosto di un fatto casuale, un errore. E io avrei voluto abbracciarti e dirti che ti volevo tanto bene, e che avevo voglia di stare con te, ma non ne avevo il coraggio. Non ne ho mai avuto il coraggio. Diventavi rosso quando ti baciavo, anche da adulti. Un giorno mi hai dato un passaggio in auto. Tornavamo da dove? Non so, il luogo non ha importanza. La nostra è una storia senza luogo. Senza tempo. La storia banale di un fratello e di una sorella analfabeti, che non sapevano leggere il segreto della carne, della vita, che si annidano nel medesimo inizio. Così intimamente estranei. Perché non mi hai cercata? Perché non sei venuto a pretendere il tuo, a scavarmi nel cuore? Io ogni giorno pensavo domani, domani… Nelle narici l’odore dell’estate che sta per finire. Un umido strano iniziava ad appoggiarsi sulla pelle, e nell’aria un aroma tiepido che anticipava il cambiamento. Abbiamo fatto tutto il tragitto senza dire una parola, che non fosse ‘volta di là’, ‘lasciami qui’… Era così raro ritrovarsi noi due, ed era così caldo e spaventoso. Ma quella volta non ci fu nulla di spaventoso. Ti accarezzai i capelli sempre troppo azzimati e tu mi baciasti la mano. Quando sono scesa ci siamo sorrisi. Quante volte avrei voluto ricordarti quel viaggio, quando venivi a trovarmi solo per vantarti di nuove commissioni, degli onori che qualcuno ti aveva tributato, dell’acquisto di una villa al mare. Un investimento, lo chiamavi, mai un regalo. E invece di sentirmi invidiosa, non so perché, mi riempivi di pena. E di stanchezza. Sì, sì dicevo, che bello, mentre ti offrivo un caffè, e un biscotto, un goccino di latte, un po’ di zucchero ancora. Che bello, Giuseppe, che bello. “Smettila di fare la superiore. L’importante è fare i soldi” “Non dirmi che costruisci case e ponti solo per fare i soldi?” “Certo che si. Per cos’altro?” “Per lasciare qualcosa di te. Per fare qualcosa di buono. Per la gloria” “Per la gloria? La gloria non riempie la pancia” “La tua pancia è piena comunque. Forse avresti bisogno di altro.” Facevi una smorfia scettica e soddisfatta insieme, che ti rendeva volgare. Quanto mi faceva arrabbiare che tu fossi così. Ti trovavo arrogante, ma un po’ ti compativo. E continuavo lo stesso a desiderare qualcosa da te. Che non sapevo capire. Mi facevi sorridere, mi facevi stizzire. “Sei proprio scemo. Tu non sai niente della vita. La felicità non osi neppure pensarla!” “L’unica felicità la danno i soldi”. Da chi avevi preso quelle strambe idee? Dal babbo? Papà fingeva di essere così. C’era qualcosa cui teneva più dei soldi e della carriera, ma non sapeva dirlo. Tu non volevi. Eri la sua caricatura, povero Giuseppe. Quella mattina il cielo doveva esserti apparso vasto come il mondo intero e ancora di più. Una mattina che spuntava da una notte insonne e umida come un fungo. A lungo ti eri rigirato nel letto, che era rimasto un groviglio di lenzuola irritate. Una blu e l’altra gialla. Due lenzuola spaiate, come spaiata ormai era la tua esistenza. Perché sei uscito così presto? Cosa ti ha cacciato fuori? Chissà se anche le volpi escono dalla tana prima di morire. Nel cielo una striscia viola che prometteva afa. Volevi strappare un respiro, un orizzonte nelle strade ancora vuote, dove qualche passante strisciava lungo un marciapiede, come la coda di un topo. È imbarazzante incontrarsi all’alba, svelare ad altri il proprio segreto rovello, l’insonnia, l’irritazione, il vuoto, la menzogna. Eppure qualcuno continuava a chiamati al cellulare. Perché non rispondevi? L’ultimo di molti messaggi rivelava qualcosa di bello, una sera per voi, un incontro che vi aveva scoperti vicini. La piazza dove sei approdato è a cinquecento metri da casa tua. L’hai attraversata tutta per andare a sederti al tavolino del bar Molfetti. Non stavi già male, come ha detto il medico, perché hai oltrepassato ben tre panchine. Avresti potuto stenderti lì. Invece no. Hai proseguito verso le belle poltrone del bar e il cameriere che stava aprendo il locale ti è venuto incontro, ma tu gli hai fatto cenno di continuare il lavoro, lo avresti chiamato poi. Volevi stare solo. Volevi sempre stare solo. Ti sei seduto proprio nell’angolo più lontano e le rondini dovevano sfrecciare nel cielo, e garrire come metallo e fuoco, nel cuore stridente dell’estate. “Che sta succedendo?” devi esserti chiesto. E la sensazione di qualcosa che si era spezzato per sempre ti ha tolto il coraggio e la voglia di resistere. Che fatica tenere in piedi una vita che non era la tua. Si, si Mary, è stato bello, ma non significa nulla. Smettila di cercarmi. Non starmi addosso, non togliermi l’aria. Qualche ora insieme, nient’altro. Fuori di qui, fuori da casa mia, fuori dai coglioni A forza di svuotarla quella casa si era fatta un deserto. Un deserto sommerso di carte, di scorie, di polvere. Hai acceso una sigaretta, ma il fumo deve averti impastato la saliva, più amaro del solito. Qualcosa è andato storto e l’hai buttata a terra, senza neppure spegnerla. È rotolata fino ai bordi di una grata. Un senso di fastidio, un disagio, forse finalmente il sapore del sonno, ti hanno fatto reclinare la testa sulle braccia appoggiate al tavolo. Perché mi hai tenuta lontana? Perché non volevi che capissi? Perché non hai pensato a me? Io ti odio per questo, perché non hai sentito, in quel preciso istante in cui ogni giorno della tua vita ti è scivolato davanti come un rettile sudicio, che io avevo bisogno di te, di essere riconosciuta, di esserti accanto, di saperti fratello. Che ero pronta ad amarti, che avevo bisogno di amarti. Fuori tutti, fuori da casa mia, fuori dai coglioni. Niente in cui riconoscerti, niente a cui tornare, niente da cui ripartire. Devo esserti parsa anch’io inutile e vile come tutto il resto. E quello sguardo laido che in quel preciso istante hai appoggiato su di me, non riesco a strapparmelo di dosso. E martella come un singhiozzo che continuo a frenare. Shock anafilattico. Il viso gonfio e turgido, come un cocomero preso a calci. Dicono che deve averti punto un insetto. Quel tafano nero che credevi d’aver domato per sempre, ti ha avvelenato il sangue giorno dopo giorno, come un gas di scarico. “Sembrava addormentato- ha detto il cameriere –e l’ho lasciato in pace. Era sempre così gentile con me. Non dimenticava mai la mancia”. Ha dirottato lontano altri clienti, perché neanche loro ti disturbassero. Io so che non dormivi. Ascoltavi il sole che nel suo trionfo inondava la piazza. Ascoltavi le voci che rotolavano fino a te con un tintinnio metallico. E mentre la nuca si faceva una palla di cuoio che bloccava il respiro e la bocca una caverna di fuoco, forse hai intravisto una luce più chiara, un profumo di giorno nuovo, uno spicchio di muro dorato, e anche Mary ti è apparso più amico, più caro. Perché per un attimo hai teso il braccio e lo hai chiamato. Ma era già tardi ormai. Il tempo era scaduto. “Sembrava un urlo animale- ricorda il cameriere – Mi sono avvicinato. Era spaventoso. Rantolava. Diceva Gian Maria”. di Silvia Golfera

mercoledì 23 dicembre 2009

"Il mio Natale" di PAOLO RUFFILLI

Volentieri e con gratitudine pubblichiamo questa poesia dedicata al Natale che lo scrittore e poeta PAOLO RUFFILLI ci ha inviato come augurio per tutti gli amici di Caffè Letterario. Paolo Ruffilli è stato ospite di Caffè Letterario il 4 febbraio 2009 dove ha presentato il suo volume di poesie "Le stanze del cielo" edito da Marsilio.
Il mio Natale Rimani e non nasconderti, specchio del mio cuore offeso e traditore. Non lasciarmi. Ti riconosco e in te reclamo ancora la parte mia migliore. E quello sono io come ero allora ma, nel mio farmi vecchio, adulterato: distratto, disonesto, mentitore. Eppure, sotto il peso dell’errore, di nuovo sulle tracce del passato, per ritrovarmi con te rinato alla promessa antica. E, poi, qualunque cosa dica e sia finora diventato, per quanto io protesto di rimpianto, resto o mi sforzo di restare intanto uno che non smette di cercare (qualunque io sia stato) quello che non ha fin qui trovato. di Paolo Ruffilli

martedì 22 dicembre 2009

Buon Natale a tutti...

Anche quest’anno la cartolina degli auguri di Caffè Letterario è opera del fumettista lughese STEFANO BABINI con un Robert Louis Stevenson in versione natalizia. Le serate di Caffè Letterario riprenderanno mercoledì 13 gennaio 2010 proprio con la presentazione del libro scritto e disegnato da Stefano Babini “Non è stato un pic-nic” edito da Dada Editore con prefazione di Vincenzo Mollica. Il calendario definitivo degli incontri del mese di gennaio 2010 sarà pubblicato a giorni

"Bonjour Tristesse" di DAVIDE SILVESTRI

Lo scrittore veneziano DAVIDE SILVESTRI è stato ospite di Caffè Letterario il 6 ottobre 2008 con il suo romanzo "La linea generale". Francoise Sagan, "Bonjour Tristesse", Longanesi 2009 Oltre ad essere bel romanzo, è anche uno studio raffinato sulla manipolazione, su quel senso di onnipotenza che ci prende quando riusciamo a deviare il comportamento altrui. La protagonista è un’adolescente volitiva e intelligente, che decide di non far sposare al padre la donna di cui è innamorato. Giocando sulla vanità del genitore, muovendo come marionette inconsapevoli quelli che le stanno intorno, la ragazza ottiene anche troppo. Ambientato nella Francia del sud in piena estate, è un libro luminoso ma nello stesso tempo cupo. Anche la protagonista è ambivalente, divisa tra una giovinezza gioiosa e una malvagità di cui si vergogna ma di cui non può fare a meno. di Davide Silvestri

"Guido Keller e le tagliatelle lughesi" di PAOLO CAVASSINI

Lo storico ravennate PAOLO CAVASSINI è stato ospite di Caffè Letterario venerdì 11 dicembre per presentare il libro scritto a quattro mani con Mimmo Franzinelli "Fiume. L'ultima avventura di D'Annunzio."

Se fosse sopravvissuto alla guerra, Baracca sarebbe volato a Fiume con Gabriele d'Annunzio ? Chissà. Credo però che se Guido Keller avesse assaggiato certe tagliatelle lughesi avrebbe ridimensionato i petali di rosa intinti nel miele! Grazie di cuore a tutti voi e al bel pubblico di Caffè letterario per l'indimenticabile serata. Paolo Cavassini

sabato 19 dicembre 2009

I ritratti di STEFANO BABINI

Il fumettista lughese Stefano Babini continua la sua serie di ritratti degli ospiti di Caffè Letterario con questi sei acquarelli dedicati ad alcuni degli autori intervenuti in questa stagione autunnale. In ordine: Giorgio Falco, Giulio Mozzi, Emanuele Trevi, Paul Polansky, Luca Telese, Leonardo Colombati.