Sull'incontro
di mercoledì 11 dicembre con lo scrittore Osvaldo Guerrieri che ha presentato
il suo saggio "Col diavolo in corpo" edito da Neri Pozza.
Non
si può pensare al maledettismo poetico senza associarlo al vagabondaggio,
all'uso di sostanze stupefacenti, all'erranza concettuale e allo spirito di
diniego e di mostrificazione dei comportamenti che poeti e artisti vissero con
rigore certosino da veri monaci della depravazione e cultori della sulfurea
dimenticanza di ogni savoir faire borghese.
Questi
comportamenti, questo “vivere altro”, questo vivere oltre, non erano solo conseguenti allo spirito di
una legge e di un assioma come -epater les bourgeois-,che pure era una cifra
necessaria ma era la commistione della poesia con il corpo e le sue pulsioni,
senza l'inciampo del Parnaso dei suoi
poeti laccati, degni di nota ma alla
fine stopposi elementi d'arredo nel salotto della petite dame de la ville.
Quando
Verlaine scrisse il famoso saggio che aprì la stagione all'inferno dei maudits
tracciò una via oscura da percorrere “sul battello ebbro” in una erranza che
annegava i malumori dei suoi adepti nell'assenzio e nell'haschish dove tutti i
ragguardevoli poeti della compagnia, tra cui uno eccelso, avrebbero marcato il
territorio sconfinato dell'arte con uno sputo sprezzante sulle carte di
arcadici sonetti. Essi scelsero deliberatamente una parola che definisce chi
compie una cattiva azione e nello stesso tempo chiude la stagione inquieta del
romanticismo per aprirne un'altra ancora più agitata. Il maledettismo è una
chiamata fuori della società prima che una uscita dalla patria delle belle
lettere è un clamoroso urlo contro tutta l'apparenza delle mode e della
bellezza in senso classico.
Rimbaud scrive una lettera a un poeta parnassiano, de Banville credo dimenticato dai più, nella quale enuncia che la sua Saison a l'enfer spedisce tutti quanti loro nel regno delle ombre poetiche, e in un'altra lettera a Paul Demeny, avverte che solo con la sregolatezza di ogni comportamento si diventa veggenti e si accede alla terra ignota, a “quell'inconnu”, a quella terra ignota che è la sola meta per il poeta e oggetto di rivelazione.
Rimbaud scrive una lettera a un poeta parnassiano, de Banville credo dimenticato dai più, nella quale enuncia che la sua Saison a l'enfer spedisce tutti quanti loro nel regno delle ombre poetiche, e in un'altra lettera a Paul Demeny, avverte che solo con la sregolatezza di ogni comportamento si diventa veggenti e si accede alla terra ignota, a “quell'inconnu”, a quella terra ignota che è la sola meta per il poeta e oggetto di rivelazione.
Il
maledettismo è l'ultimo tratto del romanticismo, probabilmente il suo apice
insuperabile,la vetta fredda dove dimorano le aquile di un'altra poesia. Dentro
a questo -ismo- che la definisce come corrente c'è tutto quello che comunemente
si definisce una vita sprecata. Verlaine rompe ogni indugio e ammette che
l'artista sia qualcosa che somiglia a un depravato e che non ha paura delle conseguenze. Sprecare la vita
diventa un imperativo kantiano, quello che conta non è conservarsi ma
raccontarsi senza il ritegno dovuto alle convenzioni.
-Tutto
va bene nel peggiore dei mondi possibili- così sentenziava Dino Campana senza
un briciolo di speranza in corpo
inchiodato a vivere nella cosidetta normalità, nonostante una scrittura
poetica abissale lo consegnasse fuori dal mondo, mettendo anche lui come altri
la sua firma in calce a una pagina storica nella quale molti artisti scrivono
col sangue la loro vita. Poesia e vita. E non una vita qualunque ma quella
fuori da ogni schema borghese.
di Ivano Nanni
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