Pagine

Sala conferenze - Hotel Ala d'Oro

Via Matteotti, 56 - 48022 Lugo di Romagna - (Ravenna) - Italia
Per Informazioni : 0545 22388 - claudio@aladoro.it
Iscriviti alla newsletter di Caffè Letterario sul sito http://www.aladoro.it/

mercoledì 29 ottobre 2008

"Quel che resta del dialetto" di Ivano Nanni

Quelle piccole chiose scritte all’inizio del capitolo di "Un tranquillo paese di Romagna" di Carlo Flamigni appartengono alla tradizione dei romanzi picareschi, ai romanzi di avventure, ai diari, ai libri di viaggio, alle didascalie di tavole di zoologia e botaniche e perfino ai titoli di quadri. Lo scopo di questi riferimenti aveva un duplice scopo. Il primo era scenografico, in quanto visivamente incorniciava la narrazione in un contesto che ricordava i siparietti teatrali; il romanzo perciò diventava misura e ordine del paesaggio, e il secondo morale, cioè rassicurava il lettore riguardo a ciò che avrebbe trovato nel capitolo. A mio parere direi che l’autore ama il teatro, ha il gusto della scena e della scenetta, è attento a coglierne i tratti arguti e scherzosi orecchiati al bar, ne conosce le sfumature. In genere sono scherzi che sconfinano con l’offesa e spesso sono pesanti ed eccessivi, come i ruspanti galli romagnoli sanno fare; e nello stesso tempo l’autore è talmente rispettoso di chi legge che non desidera altro che intrattenerlo serenamente, di farlo divertire con senso della misura da buon romagnolo colto. Questione che lo nobilita oltremodo. Questi sommari si trovano in Gargantua e Pantagruele tanto per fare un esempio illustre, e in numerosi romanzi che hanno per protagonisti avventurieri di ogni genere; i capitoli delle memorie di Casanova sono introdotti da questi titoli, e non si contano quante dissertazioni e studi filosofici iniziano con un titolo chilometrico. In tempi più recenti non si distacca da questa tradizione nemmeno Mario Soldati il quale scrive bellissime titolazioni per il suo romanzo enologico - Vino al vino-resoconto di tre viaggi, in giro per l’Italia, alla ricerca dei vini genuini. Ogni capitolo è un sipario che si alza su un paesaggio, una terra, o una marca più vasta, sulle persone che lì vivono, e che mirabilmente vengono fuse nel crogiolo letterario di Soldati che, così facendo, storicizza e fa antropologia. Credo che anche per Flamigni sia la stessa cosa. La sua passione è antropologica e rurale insieme. Il suo incedere come scrittore non deborda dalla pagina, la sua immaginazione è tenuta sotto controllo da un termologia attenta e dal puntiglioso retroterra scientifico. Dunque, la titolazione introduce una misura del capitolo e una forma dalla quale si pregusta lo svolgimento del racconto, come se si orientasse l’attenzione sullo sviluppo di un assioma( il titolo del capitolo), portando il lettore verso una conclusione( la soluzione del problema). Su questo giallo soffia il vento dell’anticlericalismo, dell’anarchia e dell’insofferenza per i potenti. I preti non ne escono bene. Don Vittorio, il prete pedofilo che dorme per terra con il cilicio, non trova pace tormentato dal peccato per quello che ha commesso in gioventù. A tormentarlo ci pensano le sue vittime: il giovane maestro sedotto in collegio dal prete, che si scopre un mostro assassino e impotente; e il pittore, fratello di una delle vittime di don Vittorio, morto di eroina. Entrambi si ritrovano complici nella vendetta, alimentata dal risentimento e dall’impossibilità di amare. Si disegna in questo modo una triangolazione che prevede il peccato non punito, la vendetta pregustata per anni, la scoperta dell’ebbrezza dell’assassinio di minori con lo scopo nascosto di gettare nella disperazione il povero prete coperto dalla vergogna per una debolezza disgustosa. Sullo sfondo si agita il sottobosco delle piacevolezze dei piccoli borghi con le loro piccole maldicenze e grandi mostruosità. Se poi pensiamo a come finisce il maestro assassino c’è da rabbrividire; inforcato da Mariuccia, la nonna di Ofelia, che non esita e non ha rimorsi nel maciullare il carnefice della nipote, gettando poi i resti dell’infilzato nella porcilaia, vediamo come sono presenti cenni macroscopici di giustizia tribale nelle nostre colline. Una tragedia romagnola che però spicca il volo sull’ultima battuta che pare uno scherzo atroce e beffardo quando Primo, lo scrittore investigatore, prospetta la sua intenzione di non mangiare più prosciutto almeno per un po’, e siamo all’ultima pagina. Tuttavia questo romanzo è anche altro: e qui azzardo un’ipotesi molto sotterranea. A mio parere questo romanzo pone al centro della trama, come sottotraccia, non solo dei personaggi e una macabra vicenda che pure ci sono come si è visto, ma una lingua. Questa lingua è il dialetto e la sua storia è quella narrata attraverso le vicende dei personaggi che lo personificano attraverso il lessico, la sintassi e i modi di dire. C’è un romanzo nel romanzo il cui protagonista vero non c’è, non è visibile, ma solo udibile e non sempre per altro, e quel che è peggio sta per sparire. Si avverte la sua presenza intermittente. Il dialetto è qui personificato con figurazioni tipiche delle nostre terre, con personaggi e caratteri che sono gli abiti dentro ai quali vive il cuore stesso della terra. Si mette in scena un reticolo vertiginoso di personaggi, si scava nelle profondità di vecchie storie, si scoprono gli altarini di una piccola comunità che ha nel tempo sedimentato rancori e pietà in un equilibrio precario sulle chiacchiere, le reticenze, gli sbotti di collera, o le sanguigne gesta criminali in un impasto vischioso, in cui l’eccentricità personale si lega spesso a filo doppio con la passione politica. Terre di fede incrollabile repubblicana, mazziniana, anarchica e antipapista. E dalla terra, anzi dalle radici e dal sotterraneo mondo di una lingua che giorno dopo giorno perde pulsazioni, l’autore prende il vigore necessario per ricordare e meglio raccontare questo dramma - comico, di personaggi campestri e di vittime annunciate. “ Comunico che il dialetto sta morendo,guardatelo in una delle sue ultime rappresentazioni, salutatelo e poi andate a trovarlo sottoterra se proprio non potete farne a meno “ – sembra voler dire dalle pagine del romanzo, molto obliquamente l’autore. Forse davvero il dialetto diventerà una questione da speleologi? Ci si dovrà inabissare dentro a buie caverne per cercare le nostre radici una volta spianate le campagne? Chissà! Una volta che anche i contadini non parleranno più il dialetto e la terra non sarà più la stessa, una certa storia sarà finita, ma, i più fortunati, potranno prendere dallo scaffale della libreria un libro come questo e studiarla, quella storia minima di fatti e fatterelli, se non altro per il diletto di averne memoria e riderne di gusto o provare un brivido di paura.

Nessun commento:

Posta un commento