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mercoledì 30 giugno 2010

"LIBERTALUGO" di ALBERTO SALZA

L'antropologo ALBERTO SALZA è stato ospite di Caffè Letterario venerdì 21 maggio per presentare il suo ultimo saggio "Bambini perduti". Francesco Baracca, pilota da caccia, fu un Bambino Perduto. Eppure Francesco Baracca sapeva volare. Come il Lindbergh di Ivano Fossati avrebbe cantato: «Se mi vedete qui a volare, è che so staccarmi da terra e alzarmi in volo come voialtri state su un piede solo». Quando l’ho visto, ritto nella piazza di Lugo, con quel tutone informe e un’ala verticale alle spalle, non l’avrei detto. La portanza del profilo era come sbagliata: si limitava a deviare il vento, non a sollevare Baracca. A lui (lo si capiva dagli occhi sotto il caschetto) mancava, davanti, la pista per il decollo di domani. Perché, come il monumento a Baracca, la memoria è il presente del passato, mentre il presente del futuro è la speranza. Baracca fu tenuto a terra dal padre, che lo volle davanti a casa sua, al centro del paese invece di lasciarlo decollare tra i prati secondo l’ispirazione dello scultore. Ecco perché si è trasformato in Bambino Perduto: fregato dalla famiglia. Girando mestamente la testa dal monumento a Baracca, l’occhio mi cadde sulle pareti della rocca. E lì, in bella vista, dovetti digerire un violento attacco alle istituzioni liberticide (Famiglia, Chiesa, Stato, Società: io sono uno dei pochissimi assertori del diritto di diserzione dalla propria cultura). Su una lapide marmorea, la più grande di tutte, stava scritto: «Più che questa pietra duri il ricordo di Andrea Relencini, strangolato e bruciato qui presso nel MDLXXXI per sentenza della S. R. Inquisizione ed ammonisca che la Chiesa non tollera ombra di libertà». Firmato Olindo Guerrini. Ora, io non conosco i protagonisti di questa storia, ma per un paio d’anni ho cercato di coinvolgere i nomadi somali dell’Ogaden in un programma sui diritti umani. E so che l’articolo 3 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 (troppo tardi per Relencini) afferma perentorio: «Ogni essere umano ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale». Alla libertà, non alla sua ombra. Vorrei far notare come in inglese (lingua dell’estensione della Dichiarazione del ’48) si faccia uso di due termini non equivalenti per dire “libertà”: liberty e freedom. “Liberty” ha radici linguistiche latine (libertas, un sinonimo di solutus, con il significato di “slegato”, “separato”, “indipendente”): “Freedom”, invece, viene dagli idiomi del Nord (free in inglese, frei in tedesco, con la stessa radice di friend, “amico”, tutti derivati dalla parola indo-europea friya, che significa “caro”, “beneamato”). “Liberty” implica separazione, “freedom” connessione. Noi potremmo dire che si è “liberi di” (liberty), ma non sempre “liberi da” (freedom). Posso anche essere libero di andare a puttane, ma non sono libero dal mio ruolo sociale di marito, padre, Presidente del consiglio e via così. Nel suo discorso d’insediamento, il presidente Bush ha usato 27 volte la parola freedom e solo 15 volte liberty. Quando si sentì in dovere di scatenare la guerra al terrorismo nel 2001, i diritti individuali, come la privacy e la libertà di movimento, vennero erosi progressivamente a favore dei diritti collettivi in nome della sicurezza. Nel film Fuga da Los Angeles (1996) di John Carpenter, Iena Plissken (Kurt Russell) e il capo della polizia Malloy (Stacy Keach) fanno due chiacchiere: «Ce l’hai una sigaretta?». «Gli Stati Uniti sono una nazione di non fumatori. Niente fumo, niente droga, niente alcool, niente donne – a meno di essere sposati – niente parolacce, niente carne rossa!». «Il paese della libertà». Come nel caso del padre di Baracca, l’idea di libertà deve essere compatibile con le opinioni divergenti a riguardo di ciò che sia una “buona vita” (o una buon ricordo della posterità, nel caso del pilota). Dovremmo lavorare sul fatto che diverse culture/individui potrebbero non essere d’accordo su ciò che è “bene”, ma essere d’accordo su ciò che fa insopportabilmente “male”: una definizione pluralistica e glocale del “male”. La maggior parte della istituzioni (e delle persone) correla la libertà all’”innata” e “naturale” dignità dell’essere umano, al suo valore “intrinseco”, al fatto che la vita è “sacra”. Questa è una religione secolare: il fondamentalismo umanitario. Tale ”idolatria” mette i Diritti Umani su una sorta di altare, ma essi dovrebbero stare nel fango sporco di cui fanno parte. I diritti non sono sacri, proprio come non sono sacre le persone che si suppone dovrebbero averli. La spinta morale fondamentale dei diritti Umani non è verso il rispetto o la tolleranza, ma verso la deliberazione. I Diritti Umani perimetrano e picchettano, come scudi per gli uomini, la “zona del male”. Sono intrinsecamente risorse di confine. Se davvero la dignità fosse naturale, allora non avremmo bisogno di Diritti Umani per tutelare i nostri gradi di libertà. Non confondiamo ciò che vorremmo gli esseri umani fossero con ciò che noi conosciamo empiricamente di essi. La libertà non si fonda sulla natura umana, ma sulla storia dell’uomo. La libertà è un dovere, non un diritto. Anche per le vittime, anche per i bambini Perduti della Terra. E anche per Baracca, piantato a terra lì nella piazza, e Relencini, qualunque cosa abbia fatto per vedersi negata un’ombra di libertà. Ora, lasciata Lugo, me ne torno dai nomadi d’Africa, alla solita mission impossibile del deserto. Ancora Lindbergh: «Difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto». di Alberto Salza

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