Sull'incontro
di mercoledì 27 marzo con il giornalista Lirio Abbate che ha presentato il suo
saggio “Fimmine ribelli” edito da Rizzoli.
L'infinita mattanza che nel Sud si manifesta con perfetta coerenza
con i principi statutari di un antistato avviene nel pieno consenso di tutta la
cittadinanza comprese le autorità civili e religiose. Quelle autorità che
dovrebbero per lo meno contraddire e maledire con parole di fuoco le vili
azioni dei veri governatori di quei territori latitano, si fanno da parte, non
vedono e non colgono la violenza dei fatti che hanno sotto gli occhi e
prudentemente si girano dall'altra parte impauriti dalla certezza che una
feroce ritorsione seguirebbe a una denuncia motivata e coraggiosa.
Paesi arcaici sprofondati nel Medioevo più nero dimentichi di
tutto, persino del tempo che gli è toccato in sorte, il terzo millennio, sono
costituiti come feudi dominati da signori senza gloria ma di grande “onore” che
forse per necessità antropologica vivono e muoiono come animali in un macello
senza fine.
E chi sono questi governanti che incutono tanto timore, che
vivono e muoiono in terre che giorno
dopo giorno depredano a danno degli onesti
e condannano chi ha mancato loro di rispetto? La risposta è ovvia ma
occorre pure ricordarlo affinché la memoria non si atrofizzi.
Un bravo cronista investigativo, Lirio Abbate, giornalista
dell'Espresso ha condotto un'importante e agghiacciante indagine sulle cosche
mafiose calabresi che non si ferma al puro dato di quantità frutto
dell'attività predatoria ma accende i riflettori su quanto c'è di più arcaico nei
comportamenti degli iniziati alla 'ndrangheta considerando con umana pietà la
vita che le donne sposate ai boss conducono in quelle terre, in quei paesi e
città che a buon ragione si possono dire desolate di umanità.
Sono dunque le donne le protagoniste dei tanti racconti che si
incrociano nel libro – Fimmine Ribelli –, alle quali Abbate ha dato visibilità
raccontando le loro vite miserrime e segregate, a volte consenzienti alla loro
condizione disperata, altre volte disperatamente in cerca di salvezza fuggendo
dall'orrore quotidiano.
Le vicende narrate da Abbate ci piombano addosso come macigni
scagliati da un medioevo che non è ancora passato e infrangono le nostre deboli
certezze riguardo a emancipazione, libertà, umanità diritti, civiltà. Si rimane
stupefatti per quello che si manifesta dal racconto quasi epico e terribile.
Parliamo di una civiltà remota
lontanissima dalle pulsioni della vita moderna immersa nei codici di una
tribalità tramandata di bocca in bocca che emerge dal pozzo nero della storia
primitiva che si credeva consegnata per sempre agli studi degli antropologi.
Invece ci si accorge con una punta di sgomento che il primitivo è attuale e il
dato storico culturale assume i dati sconcertanti di una macchia criminale.
Le donne impaurite dalla violenza feroce delle faide si ribellano.
Promuovono fughe verso le caserme dei carabinieri, verso lo Stato che vedono
come unica fonte di salvezza, scappano verso la vita civile. Fuggono da un
mondo oppressivo e sanguinario al quale sono incatenate da quando ancora
bambine sono “donate“ dalla loro famiglie ai capi mafia che le sposano solo al
compimento del diciottesimo anno di età dopo che hanno fatto già due o tre
figli, e si sposano beninteso in chiesa, in pompa magna, con tanto di
benedizione del parroco e gli ossequi dei primi cittadini onorati di partecipare
a quelle nozze memorabili.
Qualcuna ce la fa a fuggire, altre soccombono “suicidate“ dagli
stessi familiari, magari dal fratello, dal padre o su ordine, orrore massimo,
della matriarca in persona, la nonna. Non sembra vero che esistano in paesi emancipati enclavi
dai comportamenti così rigidamente codificati che mettono sopra ogni altra cosa
l'onore della famiglia, l'onore del clan, l'Onore in ogni caso sopra la vita di
ogni donna che in questa particolare sottocultura è poco più che marginale e
sacrificabile. Sembra impossibile ma è così.
di Ivano Nanni
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