Sull'incontro di venerdì 7 giugno con lo
scrittore Dino Baldi che ha presentato il suo libro “Morti favolose degli
antichi” edito da Quodlibet.
Di solito quando ci si imbatte in un libro
che ha nel titolo la parola morte si cambia scaffale con l'oscuro presentimento
che porti male perfino leggerne la quarta di copertina tanto è il disagio che
ci procura quella parola e ciò che le sta dietro. Le convinzioni personali sul
tema sono varie e convergono in due grandi filoni. Il primo filone comprende
tutti quelli che credono che la morte sia la fine di tutto, la conclusione
definitiva di una vita che nel bene e nel male non è augurabile che si ripeta
da nessuna altra parte; e quelli che invece ritengono che questa vita sia la
premessa a un'altra vita, si spera gloriosa, di sicuro immortale di cui la
morte è ambasciatrice e memore di ognuno di noi.
Non è mai successo che la morte si sia
dimenticata di qualcuno, anche se qualche generosa dilazione ai più nobili tra
noi l'ha concessa, ad esempio intrattenendosi con il cavaliere Antonius Block
ne “Il settimo sigillo” in una
logorante partita a scacchi che termina con il colpo di mantello del cavaliere
che scarambola a terra gli scacchi distraendo per un attimo la morte, ma senza
cambiare il finale di partita. Ecco che allora “partono i reggimenti” come scrive Dino Buzzati nel suo libro
crepuscolare, vibrante di una sollecita rassegnazione dove la morte compila le
liste dei partenti con l'acribia di un ragioniere catastale.
Eppure ci sono immagini della morte fuori
dalle convenzioni, ed è la visione che ne da Flaiano, come di una bella signora
che mentre sta telefonando guarda e ci sorride con grazia, oppure passando tra
i tavolini di un caffè, distrattamente ci da un colpetto sulla spalla come per
dire “è ora di andare”.
Memorabile è certamente la spartizione dei
libri che c'è nel film di Woody Allen, “Io
e Annie”, dove i suoi sono rigorosamente quelli con la parola morte nel
titolo e che ha regalato alla sua compagna con intenzioni terapeutiche.
Immagini della morte tutto sommato dialoganti che evidenziano quanto sia
presente nella sensibilità degli artisti
la morte e quanto sia importante sapere che fa parte della vita e non
arriva da fuori come una malattia. Dunque sapere questo “era un indicatore del
livello della civiltà dell'epoca”, come scrive Dino Baldi nella premessa al suo
divertente e didattico libro “Morti
favolose degli antichi”. Un libro che ha nel suo dna l'opposizione alla rimozione
del “complemento scomodo” della vita, trattando il tema della fine con la
cognizione che nessun dolore è più grande di una vita che esclude dalla sua
riflessione la morte. Un'esclusione, praticata in epoca moderna, da imbelli e
sconclusionati mendicanti del buon vivere in cerca di un divertimento
illimitato che esclude ogni segno di riflessione sulla fine dei giochi. Ogni
pensiero rivolto alla morte, per noi moderni rifatti, è un pensiero perso, una
dequalificante immersione in una pensiero che ripugna per come sembra
avvicinarci alla tomba.
Eppure quello che indica il libro di Baldi è una
libertà intellettuale promessa sul crinale dell'humor nero, parlando di
eutanasia e suicidi come inno alla vita e non alla depressione come facilmente
si crede. E leggendo quelle mirabili morti di antichi ci si convince che
liberarsi dall' asfissia mentale verso la grande Generatrice sia una pratica
che non deve più appartenere solo agli artisti e ai filosofi ma ad ogni persona
che voglia dare un senso alla sua esistenza tenendo cara la vita, non
agognandone la fine certamente, ma pensandoci spesso, perché si sa che l'affetto
che portiamo ai nostri vizi è di gran lunga superiore a ogni promessa di
liberazione e di immortalità.
di Ivano Nanni
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