Sull'incontro di lunedì 5 maggio con lo scrittore Andrea
Vitali che ha presentato il suo romanzo “Premiata
Ditta Sorelle Ficcadenti” edito da Rizzoli
“Come? Dove?
Quando?”
Si apre così il nuovo romanzo di Andrea Vitali
“Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti” e prima che l’incontro con l’autore abbia
inizio è quello che sembra si chiedano gli astanti nell’attesa. Viene letto il
primo capitolo ed un mormorio diffuso lo accompagna, risatine qua e la
sottolineano ora il ritardo dello scrittore (bloccato in autostrada), ora i
passaggi del suo libro.
Pochi istanti dopo la lettura dell’incipit Vitali
si presenta, saluta e prende a parlare, intervenendo più volte durante la
presentazione della relatrice della serata. Non si scusa, come se il suo arrivo
non solo non fosse previsto, ma neanche dovuto, per quanto necessario, e non
per arroganza, quanto per una spontaneità nell’atteggiamento. Arriva non come
se dovesse trovarsi lì quella sera, ma quasi si trovasse di lì a passare.
Eppure quel ritardo è un po’ come una storia sospesa…
Sento che qualcosa mi sfugge nella sua persona e
attendo che sia la presentazione del suo libro a chiarire i miei dubbi.
Intuisco da subito, da prima che l’incontro abbia inizio, quale potrà essere
l’atmosfera, sbagliando a volte di poco nel ravvisare un riferimento al
Fogazzaro (“un grande, ma sempre quel lago oscuro…”) o a Pennac, le cui
atmosfere di quartiere sembrano essere state trasferite in un’ambientazione
lacustre.
Sfogliando il libro si percepisce immediatamente l’impronta
di Bassani nell’uso del dialetto e dei modi di dire, la linearità di Celati nei
“Narratori delle pianure” (“maestro” lo definirà), Piero Chiara, Soldati, Gadda
(come sottolineerà parlando con i lettori al momento degli autografi in
relazione al “Pasticciaccio”, ma confidandomi poi riferimenti più diretti,
quantomeno per quanto riguarda l’ambientazione dei suoi libri, soprattutto alla
“Cognizione del dolore”), Camilleri, Sciascia.
Quando poi comincia a raccontare i suoi aneddoti,
più o meno legati al testo presentato e derivati dalla sua esperienza di medico
di base a Bellano, dietro ai grandi autori sopra menzionati, si sente un’eco
classica, come una leggera armonia d’archi, che rimanda, ad esempio, al
Chisciotte (Geremia, il protagonista, come nel romanzo di Cervantes, “non ha
tutti i giovedì” e, come l’hidalgo, “una damigiana piena di testosterone” anche
a causa di una donna), oppure il notaro, che egli rifiuta di far somigliare ad
un Azzeccagarbugli manzoniano (autore questo di cui riconosce la grandezza
nello scrivere una storia ricchissima partendo da un plot minimalista ma che
non apprezza particolarmente nella retorica che lo circonda e di cui circonda
la storia stessa) e che riprende soprattutto Rabelais, a cui fa riferimento
anche nella dedica del libro, o ancora, nei dialoghi del testo, un sofisticato
e semplice miscuglio di pettegolezzi e strategie sembra riprendere il teatro di
Goldoni ed infine, soprattutto, è in Boccaccio che si devono ritrovare i
riferimenti più numerosi e rilevanti, dalla malattia (qui il tifo, nel
Decameron la peste) che apre il libro alle innumerevoli storie che, cambiando
di volta in volta personaggio narrato e narratore, attraversano il romanzo.
Vitali espone con estrema spontaneità le sue
storie, ride col pubblico, ci conversa con naturalezza, narra come non si narra
da tanto, racconta come fosse un nonno, una persona d’altri tempi, di tempi in
cui, come direbbe Adorno, si sapeva raccontare e non solo passare informazioni,
eppure io ho ancora l’impressione che manchi qualcosa a completare il quadro,
come un personaggio, un autore che spieghi questo autore. Il suo lavoro, ed il
parlarne, è un patchwork di note, appunti sparsi, storielle minime, pagine di
diario e tutto inserito in un’atmosfera di favola, ma di favola vera. Le frasi
son semplici e brevi, delle dimensioni del mondo che narra, un mondo che si
adegua alla misura delle sue frasi.
Vitali scrive come leggesse, parla come ascoltasse
e scrittura e dialogo entrano nella sua persona, tanto come uomo che come autore
e si confondono in una unità lineare. Tutto in lui è un confondersi
nell’armonia: la geografia da cui germogliano i personaggi, il panorama
naturale che sorge da quello umano, i movimenti del lago in quelli di un paese
lacustre, il narrare e lasciare le cose come stanno (anche quando l’ignoranza
di alcuni personaggi, lo consentisse la scorrettezza di non correggere,
richiederebbe degli aggiustamenti lessicali) la rigidità puntuale di un narrare
liquido.
Il lago quasi non c’è se non nel venticello della
sera, si fa sentire nella bonomia delle piccole meschinità dei personaggi che
vivono lungo le sue sponde, maschere clownesche quasi ciascuna con le sue
piccole crudeltà e tutti sono come sono, senza orpelli ed in molti casi senza
intenzione, un lago che, se “il fiume racconta leggende”, lui (il lago) se ne
fa memoria e riserva. Vitali, con la sua narrativa molecolare, le raccoglie
tutte e fa quasi meraviglia la facilità con cui riesce a collegarle, a tenerle
insieme, a raccontarle senza mai eccedere in alcun impeto.
C’è un che di “new vintage” in questo autore,
storie della prima guerra che, tecnologia a parte, si ritrovano identiche o
quasi nei piccoli borghi degli anni duemila, una lingua moderna per storie
antiche, un dialetto fresco ed eterno che, come per i proverbi, racconta di
tutto e di sempre.
Sento di essere molto vicino all’individuare
l’elemento mancante che chiarisca il giallo, perché di questo sembra trattarsi,
in fondo, dietro la patina delle storie semplici di un borgo, di un giallo. È
l’impressione che si ha quando lui svicola, apparentemente, dal rispondere alle
domande, raccontando delle sue radici biografiche, narrando di se per spiegare
dei personaggi, dei loro nomi, dell’autorità delle perpetue e del valore del
loro dialetto, il loro spaesamento in treno, che è poi quello di tutti nel loro
essere insieme e essere insieme isolati ed unici. Nella storia di ciascuno di
loro è la chiave del loro mistero.
Ed ecco la chiave. Simenon. Maigret ma non solo,
con la prospettiva, compiuta per uno, in fase di elaborazione per l’altro, di
approdare a storie più profonde ed ampie, quello stesso fare ad un tempo
burbero e bonario. Con le dovute differenze e con alcuni ribaltamenti nella
struttura narrativa tra i due autori, in entrambi si trova il piacere di
raccontar storie, di trascurare l’elucubrazioni della filosofia, un
sottolineare invece stili di vita, modi di vivere piccoli e semplici, il godere
del piacere di narrare.
Tuttavia, mentre Simenon ha bisogno delle atmosfere
per stanare l’identità dei personaggi, sembrerebbe quasi che Vitali usi i
personaggi per capire le geografie (fondamentali per le storie che ne
derivano), per farle emergere e così ogni personaggio diventa un indizio ed al
tempo stesso un indiziato, un sospetto, un piccolo criminale, un’inconsapevole
vittima. La stessa intensa e ricca produzione dell’autore di Bellano ricorda
ulteriormente quella del giallista belga, ma forse, soprattutto, è nell’andare
intorno al mistero, quasi accarezzandolo, senza volerlo mai davvero indagare il
punto comune tra i due, quel dire della vita, passeggiando per le strade di
Parigi o lungo le sponde di un lago.
di Vittorio Musca
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