Sull'incontro di venerdì 16 maggio con
la scrittrice Giulia Mafai che ha presentato il suo libro “La ragazza con il
violino” edito da Skira
Discutendo
con gli astanti prima che cominci l’incontro di presentazione del libro la
rappresentazione maggiormente condivisa circa l’autrice nell’immaginario comune
è quella di una donna di un’eleganza d’altri tempi, una gran dama e la
scrittrice, avanzando lenta tra le sedie appoggiandosi ad una stampella sembra
confermare subito quest’idea.
Introdotta dal relatore della serata Marco
Cuzzi, professore di Storia alla Statale di Milano, e suo genero, nei primi
momenti tace, sorride, quasi vezzosa, per quanto di lei viene raccontato, come
schernendosi con gli occhi bassi, aristocratica ed umile insieme, ironica nel
non dirsi vecchia ma “testimone storica”, come il politicamente corretto
richiede oggi giorno, onesta e modesta nel non definirsi, nelle prime battute,
una scrittrice, ma “una persona a cui piace scrivere”.
Sembra
tutto semplice, lineare, senza fronzoli eppure, al di sotto ed al di là di
questa semplicità, si percepisce una ricchezza di storie più o meno piccole,
che intarsiano e delineano a tratti la grande Storia, che la mostrano in una
prospettiva più umana e quasi più divertente anche nelle sue tragedie, come
quando le leggi razziali di Mussolini “liberano” l’autrice dall’obbligo di
andare a scuola.
Una
lettura ed un personaggio semplice, quindi, ma ad osservare attentamente la
Mafai mentre racconta le sue storie ad
un pubblico, ora perso nei ricordi di un epoca vissuta per i più anziani, ora
affascinato, nella propria gioventù da una memoria che racconta, si percepisce
una ben nascosta complessità di prospettive e punti di vista, di analisi,
biografiche, storiche, psicologiche che si integrano armoniosamente a vicenda.
Come
suggerito da alcuni critici, la forma letteraria migliore ai giorni nostri è la
biografia, soprattutto quando ad essere raccontata è la storia di grandi
personaggi, come nel caso della Mafai, dove insieme alla figura della madre,
personaggio e persona principale del libro, Antonietta Raphael, troviamo Mario
Mafai, il padre, entrambi, nella loro diversità, grandi artisti del secolo
scorso che si trovano circondati nel racconto da comprimari illustri, Da
Montale a Guttuso a grandi autori di cinema del secondo dopoguerra italiano.
Tutti
vengono presentati nella loro quotidianità che diventa quasi epica nell’eco dei
loro nomi. Le discussioni politiche o artistiche, tra Mario Mafai e Guttuso ad
esempio, in un’osteria, terminate in piccole risse e rapide riappacificazioni
danno ad un tempo valore alle vicende di ciascuno, mentre dall’altro umanizzano
figure altrimenti considerate altre da questo mondo.
Il
filtro che consente agli eventi di avere questa particolare coloritura è la
memoria dell’autrice, centrata sulla figura della madre che completa e si
contrappone con forza ed armonia insieme a quella del padre e delle altre
figura rappresentate.
La
complessità del contesto familiare, come già evidenziato all’inizio, passa
attraverso la persona dell’autrice. La timidezza del padre e l’irruenza della
madre, le vene malinconiche del ricordo del periodo bellico dell’uno e la
speranza, prettamente ebraica, in un futuro migliore, dell’altra, si uniscono
in una dualità che va oltre la semplice somma di due individualità.
Tale
complessità viene in qualche modo ridotta e moltiplicata, da un lato dal
carattere quasi documentale ed aneddotico del libro
La
biografia narrata è un ripetersi continuo di seconde pelli: il carattere chiuso
di Mafai padre copre l’irruenza emotiva ed imprevedibile della Raphael, la
molteplicità degli eventi da narrare copre i paragrafi didascalici, la forma
romanzo copre la lettera alle figlie (stesura privata e progetto originario
dell’opera), la letteratura copre le arti figurative, le atrocità del
nazifascismo i pogrom sovietici, la guerra in Vietnam le atrocità della seconda
guerra mondiale, la vita raccontata quella vissuta, la naturalezza (apparente)
riveste la polimorfia prospettica e formale, la scultura della madre riscatta e
ricopre il blocco alle mani da pianista della stessa, Flaubert copre Stendhal
nel loro far da guide stilistiche alla narrazione, la vita diventa esegesi
delle opere, il libro in se, seconda pelle allo scheletro minimale degli
episodi, diviene commento a se stesso, le prospettive disvelano le memorie.
La
biografia muta nella nenia. La Baba Yaga, che apre e chiude la storia, senza
quasi mai comparire sovverte ed innalza il racconto, trasponendolo in una
dimensione quasi onirica. Questa figura, quasi quanto quella della nonna, nel
cui anniversario dalla morte nasce l’autrice, rende quasi irreale tutto quanto
raccontato tra queste due parentesi aperte e chiuse da questo personaggio della
tradizione folklorica slava, che se da un lato si mostra come strega (così a
tratti Giulia Mafai descrive la madre) dall’altro è anche la saggezza eterna
della natura, che sempre si rigenera ad ogni fine (numerosi sono le
raffigurazioni di gravidanze della Raphael raccontati dalla figlia) e sempre
riarmonizza il disordine e annulla i contrasti.
C’è
così il continuo passaggio, senza soluzione di continuità, dalla biografia
della madre, alla sua scultura, al romanzo, alla figlia, al padre, ai quadri di
questi e così via, ma più di tutto evidenti sono, pelle su pelle, i passaggi
dalla madre alla figlia e viceversa; come scrissi per gli autoritratti di Van Gogh del 1887 ed alla sua
relazione col padre, guardando al libro della Mafai sulla Raphael (vicinissima
e distaccata nel chiamarla ora “madre” ora con il suo cognome in quanto
autrice) è come vedere nelle sue parole “il ritratto della madre di se stessa”.
di Vittorio Musca
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