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lunedì 19 maggio 2014

"Una seconda pelle" di VITTORIO MUSCA

Sull'incontro di venerdì 16 maggio con la scrittrice Giulia Mafai che ha presentato il suo libro “La ragazza con il violino” edito da Skira

Discutendo con gli astanti prima che cominci l’incontro di presentazione del libro la rappresentazione maggiormente condivisa circa l’autrice nell’immaginario comune è quella di una donna di un’eleganza d’altri tempi, una gran dama e la scrittrice, avanzando lenta tra le sedie appoggiandosi ad una stampella sembra confermare subito quest’idea.
Introdotta dal relatore della serata Marco Cuzzi, professore di Storia alla Statale di Milano, e suo genero, nei primi momenti tace, sorride, quasi vezzosa, per quanto di lei viene raccontato, come schernendosi con gli occhi bassi, aristocratica ed umile insieme, ironica nel non dirsi vecchia ma “testimone storica”, come il politicamente corretto richiede oggi giorno, onesta e modesta nel non definirsi, nelle prime battute, una scrittrice, ma “una persona a cui piace scrivere”.
Sembra tutto semplice, lineare, senza fronzoli eppure, al di sotto ed al di là di questa semplicità, si percepisce una ricchezza di storie più o meno piccole, che intarsiano e delineano a tratti la grande Storia, che la mostrano in una prospettiva più umana e quasi più divertente anche nelle sue tragedie, come quando le leggi razziali di Mussolini “liberano” l’autrice dall’obbligo di andare a scuola.
Una lettura ed un personaggio semplice, quindi, ma ad osservare attentamente la Mafai  mentre racconta le sue storie ad un pubblico, ora perso nei ricordi di un epoca vissuta per i più anziani, ora affascinato, nella propria gioventù da una memoria che racconta, si percepisce una ben nascosta complessità di prospettive e punti di vista, di analisi, biografiche, storiche, psicologiche che si integrano armoniosamente a vicenda. 
Come suggerito da alcuni critici, la forma letteraria migliore ai giorni nostri è la biografia, soprattutto quando ad essere raccontata è la storia di grandi personaggi, come nel caso della Mafai, dove insieme alla figura della madre, personaggio e persona principale del libro, Antonietta Raphael, troviamo Mario Mafai, il padre, entrambi, nella loro diversità, grandi artisti del secolo scorso che si trovano circondati nel racconto da comprimari illustri, Da Montale a Guttuso a grandi autori di cinema del secondo dopoguerra italiano.
Tutti vengono presentati nella loro quotidianità che diventa quasi epica nell’eco dei loro nomi. Le discussioni politiche o artistiche, tra Mario Mafai e Guttuso ad esempio, in un’osteria, terminate in piccole risse e rapide riappacificazioni danno ad un tempo valore alle vicende di ciascuno, mentre dall’altro umanizzano figure altrimenti considerate altre da questo mondo.
Il filtro che consente agli eventi di avere questa particolare coloritura è la memoria dell’autrice, centrata sulla figura della madre che completa e si contrappone con forza ed armonia insieme a quella del padre e delle altre figura rappresentate.
La complessità del contesto familiare, come già evidenziato all’inizio, passa attraverso la persona dell’autrice. La timidezza del padre e l’irruenza della madre, le vene malinconiche del ricordo del periodo bellico dell’uno e la speranza, prettamente ebraica, in un futuro migliore, dell’altra, si uniscono in una dualità che va oltre la semplice somma di due individualità.
Tale complessità viene in qualche modo ridotta e moltiplicata, da un lato dal carattere quasi documentale ed aneddotico del libro
e dall’altro dalla complessità prospettica e dai mille piani osservabili del testo stesso. La narrazione è levigata come nelle sculture della madre e come su queste sembra quasi la luce diventi una seconda pelle, così il racconto della Mafai diventa una seconda pelle che copre e delinea le opere dei genitori.
La biografia narrata è un ripetersi continuo di seconde pelli: il carattere chiuso di Mafai padre copre l’irruenza emotiva ed imprevedibile della Raphael, la molteplicità degli eventi da narrare copre i paragrafi didascalici, la forma romanzo copre la lettera alle figlie (stesura privata e progetto originario dell’opera), la letteratura copre le arti figurative, le atrocità del nazifascismo i pogrom sovietici, la guerra in Vietnam le atrocità della seconda guerra mondiale, la vita raccontata quella vissuta, la naturalezza (apparente) riveste la polimorfia prospettica e formale, la scultura della madre riscatta e ricopre il blocco alle mani da pianista della stessa, Flaubert copre Stendhal nel loro far da guide stilistiche alla narrazione, la vita diventa esegesi delle opere, il libro in se, seconda pelle allo scheletro minimale degli episodi, diviene commento a se stesso, le prospettive disvelano le memorie.
La biografia muta nella nenia. La Baba Yaga, che apre e chiude la storia, senza quasi mai comparire sovverte ed innalza il racconto, trasponendolo in una dimensione quasi onirica. Questa figura, quasi quanto quella della nonna, nel cui anniversario dalla morte nasce l’autrice, rende quasi irreale tutto quanto raccontato tra queste due parentesi aperte e chiuse da questo personaggio della tradizione folklorica slava, che se da un lato si mostra come strega (così a tratti Giulia Mafai descrive la madre) dall’altro è anche la saggezza eterna della natura, che sempre si rigenera ad ogni fine (numerosi sono le raffigurazioni di gravidanze della Raphael raccontati dalla figlia) e sempre riarmonizza il disordine e annulla i contrasti.
C’è così il continuo passaggio, senza soluzione di continuità, dalla biografia della madre, alla sua scultura, al romanzo, alla figlia, al padre, ai quadri di questi e così via, ma più di tutto evidenti sono, pelle su pelle, i passaggi dalla madre alla figlia e viceversa; come scrissi per gli  autoritratti di Van Gogh del 1887 ed alla sua relazione col padre, guardando al libro della Mafai sulla Raphael (vicinissima e distaccata nel chiamarla ora “madre” ora con il suo cognome in quanto autrice) è come vedere nelle sue parole “il ritratto della madre di se stessa”.
di Vittorio Musca

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