Sull'incontro
di venerdì 19 aprile con lo storico Mimmo Franzinelli che ha presentato il suo saggio
“Il prigioniero di Salò” edito da Mondadori.
Con il suo libro Il prigioniero di Salò,
edito da Mondadori, lo storico Mimmo Franzinelli credo abbia voluto accelerare
quel processo di dissoluzione del mito del duce che ancora oggi incredibilmente
affascina molti giovani militanti di estrema destra. Evidentemente la forza
iconografica che ancora esprime l'immagine del duce è potente. Complice la
politica odierna mediocre, numerosi giovani sono soggiogati dai suoi motti che
sembrano eterni e la volitiva durezza espressiva viene scambiata per
solidissima determinazione. In realtà il duce era un abile propagandista di se
stesso, parecchio lontano dallo spirito guerriero che propugnava, incitava gli
altri a combattere inventando parole d'ordine che sono passate alla storia
della titolistica guerresca. Più che un condottiero era un temerario della
parola, un pubblicitario del disordine e fautore della guerra civile, ed è
grazie a questa letteratura che il suo nome è sacro tra coloro che non credono
in nessuna giustizia e non si riconoscono se non nell'iconografia spavalda del
fascismo.
Se aggiungiamo alla sua abilità parolaia l'infinità di testi
lacunosi, agiografici e tendenziosi che
sono stati scritti sulla sua figura si capisce come il suo mito sia difficile
da scalfire.
Sebbene il piedistallo sia alto e solido, con
grande meticolosità lo storico Franzinelli prova a demolirlo illuminando una
parte della nostra storia recente, torbidamente imbrattata di luoghi comuni con
nuovi materiali inediti che provengono per buona parte dall'archivio Petacci,
ricco di importanti documenti e lettere private che il duce scriveva alla sua
amante ufficiale, convinta filonazista e che gettano una nuova luce sulla
figura del duce nel frangente estremo che va dall'ottobre 1943 all'aprile 1945.
Da questi inediti emerge in tutta la sua
drammatica complessità la tragedia del
fascismo e del suo capo più che mai scisso in due figure: quella pubblica che
ancora ammetteva improbabili disegni di resurrezione e richiami alla compattezza
dei fascisti, e quella privata ripiegata su se stessa consapevole della sua
impotenza e inevitabilmente depressa e intimorita.
Il duce costretto all'asfittica residenza di
Salò osteggiato dai tedeschi, tradito dai camerati, ossessionato dalla cattura
da parte degl'alleati, minacciato dai partagiani, e infine tormentato
dall'ulcera (apparsa fin dai tempi del delitto Matteotti), trova nella sua
amante l'unica interlocutrice che lo odia per essere diventato l'ombra del capo
che era, ma che con lui si farà uccidere, senza paura, consegnandosi alla
storia come desiderava, in piena consapevolezza. Nella sua delusione senza
rimedio la rabbia del duce traspare nettissima, nelle 318 lettere che i due si
scrivono, contro gli italiani popolo di inetti, e in quel carteggio intimo e
politico al contempo, immaginava se stesso proiettato nell'eternità, l'ultima
bandiera degli sconfitti, dei sorvegliati speciali, dei traditi dai suoi stessi
camerati e in questo ennesimo segno di egotismo allucinato traguardava in modo
preveggente quello che sarebbe successo non tanto a se stesso come uomo, la sua
fine era scritta, ma quello che la sua immagine avrebbe significato negli anni
a venire.
di Ivano Nanni
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