Sull'incontro
di lunedì 8 aprile con Luciana Castellina che ha presentato il suo racconto di
viaggio “Siberiana” edito da Nottetempo.
Forse
chi ha ascoltato lunedì sera la presentazione del libro di Luciana Castellina,
Siberiana, ha associato quel viaggio caracollante in treno trait d'union tra l'occidente e l'oriente a
un film di Sean Penn – Into the Wild – in cui si narrano le tragiche vicende di
un ragazzo che alla ricerca di se stesso si smarrisce nel grande Nord
americano. Con tutte le dovute differenze tra il film e il libro, anche la Siberia narrata dalla scrittrice e militante
storica del Pci è una vastità sconfinata
e per lo più disabitata con regioni vaste come mezza Europa popolate da un
pugno di persone in cui smarrirsi per non essere più ritrovati è facilissimo. O
per essere ritrovati per puro caso come è capitato a quella comunità di eremiti
che vivevano nel più completo isolamento dagli anni trenta e che non sapevano
nemmeno che nella parte occidentale del mondo c'erano stati eserciti che si
erano combattuti per anni per la supremazia del mondo. Gli echi delle cannonate
non avevano passato la barriera di ghiaccio siberiano si erano congelate
nell'aria rarefatta e cristallina della steppa lasciando quei santi uomini, per
loro fortuna, ignari della malvagità dei loro simili.
Sono dunque terre
selvagge quelle che si attraversano per novemila chilometri di binari dentro a
vagoni dove la ristorazione è lasciata
alla provvidenza di qualche babuska che vende
polli infreddoliti e ottimi cetrioli in stazioni remote per gli affamati
del treno che corre verso la punta estrema del grande continente euroasiatico,
a guardare il mar del Giappone. Però correre forse non è il verbo esatto, ai
russi non piace correre, come ci racconta l'autrice, per questo prediligono le
scomodità della transiberiana al volo aereo, sei giorni di viaggio per arrivare
a Vladivostok, credo, per non fare troppo presto ad arrivare a destinazione.
Pare che i russi non vogliano privarsi
del piacere di una settimana di vacanza in treno con i comfort food d'eccellenza come vodka, cetrioli e polli, un
comodo letto, pigiama e pantofole imbottite e la possibilità di fare amicizie
ferroviarie indimenticabili, sobbarcandosi un viaggio che per noi occidentali
fuori dai canoni costituiti della comodità è pura avventura da amazzonia
insetti compresi.
Ma forse non si deve dimenticare che i russi sono un popolo
temprato da sofferenze e lutti indicibili
che hanno fatto del sacrificio un
pilastro morale di ogni possibile resurrezione. Lev Tolstoj che dormiva
quasi sempre su un divano come anche Dostojevski del resto, che su un divano
c'era nato, scriveva sempre in piedi e doveva avere gambe d'acciaio se pensiamo
a Guerra e Pace, e quando era stanco indossava una tela cerata per proteggersi
dalla guazza e andava fuori di casa, a Jasnaia Poljana, si piazzava sotto un
albero e dormiva beatamente con la testa appoggiata a un dizionario. Tolstoj,
ma anche Cechov non era da meno. Dormiva anche lui su un divano. Gran parte
della letteratura russa è stata concepita
su un divano. L'ideale per Cecov era una piccola baita con un tavolo,
quattro sedie, un divano, una piccola cucina e scrivere quattro o cinque
racconti all'anno. Senza fare deduzioni forzate
forse si può immaginare come abbiano fatto a vincere la loro guerra
patriottica ed essersi risollevati dopo un'ecatombe biblica che avrebbe
inabissato ogni altro popolo. Novemila chilometri che sono una tratto di
identità nazionale forse l'unica che è rimasta dopo gli sfaceli del mercatismo
nazional delinquenziale che si è imposto in tutta la Russia dopo la caduta del
cosidetto impero del male.
Tuttavia
a parte il romantico albore dei ghiacci e dei racconti della steppa va
ricordato che la Siberia è sempre stato
un luogo deputato alle deportazioni, l'inospitalità del luogo ne faceva un
posto ideale per punire i dissidenti, e questo la Castellina lo ricorda, lei stessa
come altri dissidenti estromessi dal Pci allora monolite di stampo sovietico.
Anche quella una piccola Siberia.
di Ivano Nanni
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